di Leonardo Lippolis
Nel 1957 un ventitreenne inglese, che in patria era renitente alla leva ed era stato espulso dalla Young Communist League per le sue posizioni antistaliniste, dopo aver girovagato negli ambienti artistici europei, aveva appena partecipato alla fondazione dell’Internazionale situazionista. Il contributo che Ralph Rumney, questo il suo nome, propose al gruppo fu una ricognizione psicogeografica di Venezia, la città dove allora viveva con la fidanzata Pegeen, la figlia di Peggy Guggenheim. La psicogeografia, elaborata dai situazionisti, si proponeva di indagare gli stati d’animo che l’ambiente urbano suscita in chi li frequenta. Esplorando la città senza seguire i condizionamenti di tipo utilitaristico che ci obbligano sempre agli stessi spostamenti era possibile, secondo loro, mettere in discussione il capitalismo dal punto di vista della vita quotidiana. Venezia si prestava allo scopo grazie al suo spazio labirintico, che offre infinite possibilità di spaesamento rispetto alla noia ordinata della città razionalista. L’intenzione di Rumney, nel momento in cui la città era già al centro dell’esplosione del turismo di massa internazionale, era “de-spettacolizzare Venezia suggerendo percorsi inediti” e “creare uno schizzo che mostrasse le aree in cui nessuno andava, lontano dal Canal Grande”. Il frutto del suo lavoro (The Leaning Tower of Venice) si presentò come il détournement di un fotoromanzo che raccontava l’esplorazione della città con fotografie e didascalie dei luoghi attraversati, ma egli la completò soltanto due anni dopo, nel 1959, con un ritardo che gli costò l’esclusione dal gruppo situazionista.
A distanza di quasi sessant’anni Venezia rappresenta il caso più clamoroso dei processi di museificazione che tendono a ridurre i centri storici italiani a parchi tematici destinati al consumo turistico. Così, a fronte di una popolazione locale costretta a scegliere se adeguarsi a vivere di quell’economia o ad andarsene, al punto che oggi essa risulta ridotta sotto i cinquantamila abitanti, il principale problema urbano pare essere come regolare il flusso dei circa quindici milioni di visitatori all’anno che la attraversano tutti i giorni, da cui le polemiche per la recente introduzione del ticket giornaliero, e non la lacerazione del suo tessuto sociale, come suggeriva invece, già nel 1974, una signora veneziana intervistata nel documentario La città di Guido Vianello: “Arrivano i turisti e noi veneziani non contiamo più niente. Che cosa significa salvare Venezia? Vuole dire chiamare più turisti? Non so che bisogno ci sia di fare tanta propaganda per attrarre i turisti. Venezia è bella e la gente ci viene lo stesso. Bisogna che tengano conto che ci dobbiamo vivere anche noi veneziani”.
Questa domanda rimane centrale ancora oggi. Venezia è bella e la gente ci andrebbe lo stesso, se pensiamo che la sua vocazione turistica risale al Settecento, quando non solo le bellezze artistiche ma anche la natura libertina e gli spettacoli vi attiravano la nobiltà dedita al Grand Tour e un artista come il Canaletto intuì il business delle vedute come ricordo indelebile della città per i nobili che l’avevano visitata.
Ma cos’è allora che caratterizza in senso distopico i suoi flussi turistici di massa oggi? Sicuramente anche il fatto che essi si concentrino in pochi percorsi standardizzati, prestabiliti dai vari tour operator o indotti dalle luci abbaglianti di negozi, ristoranti e locali. San Marco, il ponte di Rialto, il Canal Grande, direttrici da cui è sufficiente deviare per ritrovarsi in reticoli di calli, canali e piazze molto meno affollati nei quali si può apprezzare l’unicità della città; intuire la genialità ingegneristica con cui fu costruita sull’acqua come una sorta di foresta rovesciata; apprezzare la sua architettura rimasta pressoché intatta da secoli, la stessa esaltata nel 1851 da John Ruskin (Le pietre di Venezia) come esempio di un saper fare artigiano distrutto da quella alienazione del lavoro industriale che veniva contemporaneamente celebrata dall’Esposizione Universale di Londra; stupirsi che si possa camminare per ore e ore senza la presenza minacciosa del traffico automobilistico; il potersi perdere spensierati perché la barriera dell’acqua esorcizza l’inquietudine di finire all’improvviso in una terra di nessuno incastrata tra una tangenziale e un capannone industriale. Basta uscire dai percorsi affollati e si incontrano i veneziani impegnati nelle loro attività quotidiane o gruppi di bambini che giocano a pallone in una piazzetta non ridotta a un parcheggio. Tutto ciò presuppone di evitare di visitare la città soltanto secondo i ritmi dei suoi grandi eventi (dal Carnevale alle Biennali), e magari anche di sentirsi sollevati dall’obbligo morale di fare lunghe code per vedere le sue opere d’arte, per cercare la bellezza che Rumney provava a evocare, ovvero la possibilità di sperimentare come un altro tipo di ambiente urbano stimoli un diverso sentimento dello spazio e del tempo, e i relativi comportamenti, dai quali siamo stati completamente alienati.
“Una città esiste se esistono ancora i suoi abitanti, che all’interno di quella realtà esistono, fanno le loro scelte, decidono del loro destino. Quando una città è vuotata da questa realtà umana, una città non è più niente. Cosa resta della città? Restano le pietre, le larve, delle larve anche bellissime che, restaurate, diventano splendidi musei che si possono proporre ai visitatori di tutto il mondo, e questa è l’unica soluzione che la nostra civiltà riesce a dare al problema di questa città. In questo modo questa nostra civiltà in fondo si rivela per quello che è in realtà. Si può chiamare civiltà? No, è la negazione di se stessa”. Parole dell’etnologo Robert Jaulin, estrapolate dal già citato documentario di Guido Vianello, che ci invitano a riflettere sul fatto che, per contrastare la museificazione di una città e dei suoi abitanti, andare a Venezia è giusto e bello, a patto di perdersi nel suo labirinto.
FOTO Aida Bressi, Strada Statale 106 Jonica – 2022

