di Giorgio Cappozzo
Mentre scrivo, Carlo Conti annuncia con sorriso beffardo il ritorno dei Jalisse a Sanremo. In realtà compariranno nel testo di una delle canzoni in gara, dice. Da meteore del palcoscenico a citazione, come i classici latini, meritoriamente, vista l’attesa mai lamentosa di una nuova chance. Sebbene musicalmente irrilevante, il duo è più sanremese di Al Bano (che oltre a lamentarsi si crede Mozart, anzi Schubert, che interpretò da giovane in un filmetto in costume). Come Amadeus, anche Conti distribuisce piccole rivelazioni come tasselli di un trailer lento e calibrato, consapevole che quando si parla di Sanremo ogni sillaba si espande con potenza geometrica. Sono sempre notizie di “governo”: il cast, gli ospiti, gli internazionali, le presenze femminili, gli sponsor. Comunicati che non esulano dal parlamento dell’Ariston, non riguardano mai, o quasi, come vedremo, la tranquilla cittadina con luminarie, un paio di cinema, il lungomare curato, una lunghissima ciclabile, una stazione ferroviaria dismessa e una discreta densità di ristoranti che si estende intorno alla kermesse. Nei giorni del Festival, questa Sanremo accenna un movimento impercettibile, come facciamo in metro quando qualcuno sta per sedersi accanto, per fare spazio alle truppe con pass al collo che invadono la città per mettere in onda il più grande spettacolo dal dopoguerra.
Per anni ho lavorato al Festival. Ho iniziato con il primo Conti e proseguito con la “legislatura” Baglioni. A febbraio ci tornerò, con il consueto volo Roma-Nizza, perché alla Rai conviene economicamente farti passare per la Costa Azzurra. È la parte più bella di tutto l’evento: quei pochi minuti attraverso la Baia degli Angeli inaugurano un’esperienza vintage che culmina negli alberghi sanremesi, custodi di moquette, serrature cigolanti e odori risalenti al 1972, quando Nicola di Bari vinse con I giorni dell’arcobaleno. Non è una battuta: sono stato in almeno quattro alberghi diversi, e tutti sono congelati nel passato, come il labirinto dell’Overlook di Kubrick. Uno di questi hotel, di cui non farò il nome perché magari ci ricapito e i direttori d’hotel sanremesi hanno più potere dei tassisti romani, annunciò in pompa magna grandi opere di restauro, ma si limitò alla sola facciata. Un lifting perfetto, fuori. Dentro, identico a prima. Il contrario dell’Ariston. Fuori continua a essere un mesto teatro di provincia, con le insegne ingiallite dal tempo, al suo interno è lo studio televisivo più avanzato d’Italia. Sanremo città è abbastanza carina. C’è il mare, alcune ville liberty notevoli, e un microclima che dicono faccia bene ai polmoni. Eppure da Sanremo torniamo tutti malati: gli orari di lavoro improbabili e la dieta disordinata non risparmiano nessuno e non c’è lavoratore che non ritorni dal Festival giallo in volto.
I sanremesi la gara canora la guardano in tv, come fanno a Messina, come fanno a Cuneo. Intorno all’Ariston non ci sono pullman di fan. Nessuna Woodstock. Qualche famiglia, qualche ragazzetto, qualche indigeno attempato che ha difficoltà a comprendere i nomi del cast, figurati le facce. Sono gli artisti a fare massa. Con i loro sciami di stylist, manager, assistenti, fancazzisti, tutti presi da una fretta “allarmata” per proteggere i corpi dei trapper da una folla inesistente. Intanto, Corso Matteotti vive una perenne domenica: vetrine, coppie sotto braccio, un busker con la chitarra. Sanremo sta al Festival come Roma sta a San Pietro. Troppa prossimità per crederci.
Ero lì nel 2016, quando la casa vista mare affittata dal valletto di Conti Gabriel Garko, andò a fuoco. Una donna morì. Si parlò di attentato, di terrorismo, di servizi segreti, quel cognome – Garko – aveva un suono sinistro, sinistro nel senso di bulgaro, bulgaro nel senso di compagni sospetti. Poi le voci si placarono. Fu solo colpa del gas. Ma l’episodio giunse come una padellata in pieno volto, guastando la festa di scoop e frivolezze a cui tutti, da anni, erano abituati. L’esplosione della casa di Garko ricordò all’alveare festivaliero che fuori dall’Ariston c’era una cittadina di nome Sanremo, con la sua vita e i suoi demoni e le sue fughe di gas. Per trovare una sveglia simile, occorre risalire al 1967, al suicidio di Luigi Tenco, con Mike Bongiorno che esce dal teatro, abbatte la quarta parete, e corre all’Hotel Savoy per verificare di persona l’accaduto, la tragedia, la madre di tutti i sensi di colpa, perché nelle rare circostanze in cui la città di Sanremo ha reclamato la sua esistenza, lo spettacolo ha dovuto rispondere con un garibaldesco “Io continuo”.
La recente sentenza del TAR ligure (Il marchio del Festival è della città e può darlo in licenza a chi vuole, non per forza alla Rai) ha suscitato un comprensibile entusiasmo nelle stanze del Comune. Significa mercato, dunque più soldi, ma anche la rivincita di una comunità che dal 1951 si è vista dominata, anche piacevolmente vien da pensare, da un racconto prima radiofonico poi televisivo a cui ha dato nome e ricovero.
Molti sostengono che senza il servizio pubblico il festival non avrebbe senso. È vero il contrario: senza la settimana all’Ariston la Rai non avrebbe più un centesimo e dovrebbe chiudere. E qui il tema, da commerciale, si fa quasi filosofico, certamente marzulliano: se Sanremo tiene in piedi l’azienda di Stato perché non rivendicare una propria autonomia differenziata dalla Rai, ossia da Roma? Sanremo potrebbe auto proclamarsi Repubblica, fondata sulla prima serata, che trovi in Pippo Baudo il suo Calamandrei, una Repubblica indipendente il cui spirito sia determinato non dalle vicende storico linguistiche ma da 76 anni di palinsesto, una Repubblica che ci faccia cantare, commuovere, confessare e – se avanza tempo – riflettere come meglio crede. Un’utopia demoscopica, una città (dei fiori) futura.
A febbraio, quando sarò in riviera, lavorerò perché Conti e Cattelan, e tutto il cast, Tony Effe compreso, si facciano promotori di questa iniziativa, e che le loro parole, dirette da Beppe Vessicchio, scaldino i cuori dei repubblicani dormienti nel Paese, di chi desidera un esodo privato e collettivo, e una risposta, che chiarirebbe una volta per tutte la madre dei misteri: quella di Garko fu solo una fuga di gas?
Foto: Albano Rossano Sanavio, Futebol, Gallipoli, 2014

