Appunti ucraini

Appunti ucraini

Un viaggio in Ucraina che rivela la resistenza quotidiana che, sotto le bombe, difende memoria e futuro contro l’indifferenza. A Kyiv e Kharkiv emerge un eroismo silenzioso: speranza e lotta per un’Europa di pace e giustizia.

di Francesca Veltri

Dyakuyu. La parola grazie in ucraino ha un suono melodioso; non a caso è stata definita ‘la lingua degli usignoli’.

Cos’è una patria, in fondo? Lingua e musica, arte, spiritualità condivisa, memorie del passato e speranze di futuro, riti di lutto e tradizioni di festa; tutto questo, ieri come oggi, rende viva e vibrante ciò che Simone Weil definì ‘la cité’ per indicare l’appartenenza non a una collettività aggressiva e potente, ma a un ambiente vitale che – per quanto imperfetto, come ogni cosa umana – è bello, fragile e prezioso perché unico; una volta che fosse distrutto, il mondo intero ne sarebbe sfigurato.

In piena guerra mondiale, Simone Weil lesse la Chanson de la croisade albigeoise, il poema medievale sulla distruzione culturale e spirituale della Linguadoca, e passò dal pacifismo assoluto all’accettazione di una difesa armata e non solo; di una resistenza militare e civile, morale e materiale, da contrapporre alla volontà di distruzione che il nazifascismo aveva scatenato nel mondo. Allo stesso modo, Alex Langer scelse di portare, a un’Europa che non voleva ascoltarlo, l’urlo del sindaco bosniaco di Tuzla dopo il massacro di 71 giovani in festa nella città assediata: «Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando. Se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici».

Con questi pensieri varco la frontiera tra Polonia e Ucraina, tra un mondo in pace, sia pure precaria, e uno sconvolto da una guerra di aggressione. Sono insieme agli attivisti del MEAN (Movimento Europeo Azione Non Violenta) che è alla quattordicesima missione in terra ucraina, supportata dal Congress of Self-Government of Ukraine, il cui presidente Sergii Chernov ci assisterà durante tutto il viaggio. Per me è la prima volta, e insieme agli altri neofiti ci rivolgiamo a chi ci è già stato per chiarire tutti i dubbî e i timori che ci vengono, da come scaricare l’app per le allerte, a cosa fare quando suona la sirena e come organizzarci per gli incontri…

Parliamo, facciamo conoscenza, iniziamo legami di amicizia. Molti di loro sono venuti in gruppo o già si conoscono: io sono sola, ho scoperto il MEAN perché volevo da tempo andare in Ucraina, e ci volevo andare con qualcuno che come me vedesse, nella resistenza di quel popolo, una difesa non solo della propria libertà e identità nazionale, ma dell’idea di Europa che Simone Weil e tanti come lei sognarono nel mezzo dell’ultima guerra mondiale. Quell’Europa che vide, nel giro di mezzo secolo, lo scoppio di due conflitti globali; la nuova Europa, che giurò sulle macerie della vecchia di essere diversa, più libera e giusta; questa Europa che oggi abbiamo iniziato a dare per scontata, lasciando che i suoi principî fondanti venissero incrinati da egoismo, paura e odio del diverso, dell’altro che bussa ai confini; sospesa tra sogno e realtà, riaffiora oggi nell’immagine che ne hanno coloro che per essa lottano senza farne parte, per farne parte. Per trovarvi quella libertà che è costata tanto, che costa ancora tanto – ma questo, chi l’ha avuta in dono, non sempre lo sa.

A Kyiv non parliamo di guerra. La sentiamo gravarci intorno e addosso, nel cielo carico di pioggia, negli allarmi che squarciano l’aria; ma non è di quella che parliamo, che ascoltiamo. Grazie alle nostre compagne ucraine che traducono per noi, scopriamo che in città si discute, si lotta e si spera nel futuro, all’ombra dei carrarmati russi distrutti nel tentativo fallito di occupare la capitale; passiamo in silenzio davanti alle foto del memoriale dei morti in difesa della città, improvvisato dalle mani di chi ha perso affetti e non vuole che vengano dimenticati, lungo il muro che circonda le grandi guglie d’oro della cattedrale di S. Michele. Uno spazio è dedicato ai bielorussi che hanno combattuto insieme agli ucraini: alcuni senza nome, per tutelare le famiglie rimaste sotto la dittatura di Lukashenko.

La guerra è ovunque intorno a noi, ma non parliamo di guerra, non ascoltiamo la guerra. Seduti sui banchi di una chiesa, incontriamo donne che ci raccontano di giustizia riparativa e di lotta alla corruzione; quella lotta che pochi mesi fa ha riempito le piazze di giovani in protesta, finché il governo non ha ceduto alle loro rivendicazioni. Hanno protestato sotto le bombe, sotto i droni che qui non sono giocattoli, per difendere la democrazia, di cui la corruzione è il cancro. Così ci dice Daria Kaleniuk, rappresentante dell’Associazione Anticorruzione Ucraina da più di un decennio, mentre altre donne – Alyona Horova, Presidente dell’Istituto per la Pace e la Comprensione; Ruslana Havrylyuk, Presidente del Centro di Mediazione della Bucovina – ci parlano di come mediare i conflitti interni, tra bisogni e opinioni diverse. Come iniziare a riparare e a ricucire gli strappi di una società che guarda al futuro, tra una sirena d’allarme e una fuga nella metropolitana. A Kyiv si vive, non ci si limita a sopravvivere.

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Kharkiv ci accoglie con la musica. Arriviamo col buio, la notte d’autunno all’est cala presto. Scendiamo dal treno e c’è un po’ di timore: siamo vicinissimi al fronte, è notte, ma non fa freddo, meno che a Kyiv. Nella grande piazza della stazione, semivuota – alle 23 inizia il coprifuoco – ci sono un paio di persone che cantano al ritmo di una musica allegra. Qualcuno di noi si avvicina, scoprono che siamo italiani, e mentre saliamo sul bus che ci porterà agli alberghi, ci raggiungono le parole di Cutugno: lasciatemi cantare, con la chitarra in mano… Ridiamo e la paura si allontana. Kharkiv per me resterà prima di tutto questo: una città che al buio, tra gli allarmi e le bombe, canta e balla e cerca di far contenti i suoi ospiti; è da tanto che non se ne vedono, in fondo.

In albergo, prima notte di sonno interrotto dagli allarmi. L’app suona di continuo, registra tutte le allerte della regione. Scendiamo al buio nel bunker, in pigiama e scalzi, e alla reception ci guardano impassibili: it’s safe. Non è di quelli brutti. A Kyiv ci hanno spiegato che i civili di notte, a turno, salgono sui tetti e sparano ai droni per dare una mano alla contraerea. Che sia per quello o per altro, agli allarmi non seguiranno esplosioni finché saremo in città. Cosa sia un attacco brutto, lo scopriremo solo sul treno del ritorno, quando a pochi passi dalla frontiera polacca, sperimenteremo la paura con cui i nostri partner ucraini convivono ogni giorno; le conseguenze però inizieremo a vederle fin da subito, attraversando le strade di Kharkiv. Una città che, come Kyiv, vive una vita normale in tempi anormali, ed è un miracolo che ci conquista e ci cattura: negozî aperti, passanti, fontane in funzione. Tutto è pulito, curato, non c’è una cartaccia per terra. L’atmosfera ‘normale’ è aiutata dal fatto che il lavoro di ricostruzione è continuo e capillare. Ci viene spiegato che le mille finestre tappate col compensato sono praticamente condannate: vuol dire che i danni interni sono tali che non vale la pena sostituire gli infissi. E di compensato ne vediamo tanto, in alcuni casi è perfino dipinto a colori vivaci, come se fossero quadri all’aperto.

Ci vuole un momento a rendersi conto che non ci sono pressoché bambini per strada. I bambini di Kharkiv stanno al riparo, fanno scuola a distanza, non giocano vicino alla fontana. Per loro, la clausura della pandemia non è mai finita. Le associazioni di scout ci raccontano di come provano, malgrado tutto, a far ritrovare loro la gioia dell’infanzia. Al cimitero di Kharkiv – dove andiamo a portare un fiore sulle tombe dei soldati, un fiore rosso ciascuno, il fiore per chi è morto in nome della libertà di cui abbiamo cantato fin da bambini, sulle note di Bella ciao che qui hanno un sapore antico, di sangue fresco e terra smossa – vediamo ciò che resta dei piccoli uccisi; fotografie sorridenti, circondate da giocattoli. Gli adulti lavorano, si incontrano, vivono per quel che possono ‘come se’. Alcuni di noi incontrano i volontarî delle ambulanze che vanno a recuperare quotidianamente decine di feriti dal fronte: sono uomini e donne che hanno lasciato vite sicure e carriere brillanti, in patria e all’estero, per correre un pericolo altrettanto grande di quello dei soldati. E la mia mente va al Progetto di infermiere di prima linea, che Simone Weil mise su carta poco prima di morire, facendosi dare della pazza da De Gaulle in persona, nell’idea di contrapporre, all’esaltazione nazista del coraggio nell’aggressione, la volontà eroica di cura, di difesa. Di speranza, contro ogni speranza.

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Andiamo a messa nella chiesa cattolica di Kharkiv, di rito greco, che si trova in un seminterrato dove è stata montata l’intera iconostasi, con i suoi ori e i suoi colori orientali. La struttura sovrastante serve come magazzino per gli aiuti alimentari: è piena di scatoloni enormi per la gente che arriva dalle zone dove i combattimenti sono in corso, e da cui i civili vengono sfollati. Nel cortile della chiesa trovano cibo ma anche rubinetti d’acqua, una tenda con vestiti puliti, un’altra tenda dove due donne gentili offrono the caldo e dolci. Sono entusiaste del nostro arrivo e ci offrono da mangiare e da bere e guai a rifiutare: io per sbaglio metto il sale nella mia tazza di the, ridiamo e me la cambiano. Parliamo in russo, la lingua del nemico che però è anche la loro lingua passe-partout, secondo la maledizione dei popoli che sono stati colonie, finché il colonizzatore non pensa bene di provare a occuparli totalmente. A ogni buon conto, mescolo al mio russo rudimentale un sacco di ringraziamenti in ucraino: dyakuyu, dyakuyu, unica parola che ho imparato.

Lo diremo spesso, dyakuyu, ma lo sentiremo anche di più. Tutti vogliono abbracciare e ringraziare questi ospiti italiani arrivati da un’Europa che per loro è un miraggio di pace e benessere, di libertà e giustizia, un obiettivo per cui combattere e morire. Perché l’alternativa l’hanno sperimentata sulla loro pelle, quando i soldati russi hanno occupato la regione, la città, e la gente si è raccolta nel seminterrato dove ora siamo noi, nella zona più martoriata della ‘martoriata Ucraina’, dove le fosse comuni di Izyum non sono una notizia da cui voltare in fretta la testa, un orrore tra i tanti; quelle fosse comuni sono a pochi chilometri, in mezzo a boschi di fiaba dove la terra ha rigurgitato centinaia di cadaveri abbandonati di adulti e bambini, con le mani legate, a volte un cappio al collo, segni di sevizie. Le fosse comuni, le camere di tortura, sono un passato fin troppo presente negli occhi di chi è sopravvissuto, di chi si raccoglie qui a Kharkiv, liberata con le armi che ogni notte, sulle nostre teste, abbattono droni che altrimenti ucciderebbero anche noi. Lo sappiamo bene, e a messa preghiamo celebrando il giubileo per i morti e per i vivi, insieme ai vescovi di rito latino e greco e al nunzio apostolico. Più avanti, al cimitero, si uniranno a noi nella supplica anche i rappresentanti della Chiesa ortodossa. Le parole antiche del Salmo 79 risuonano intorno a noi, per noi, in noi, come se fossero pronunciate per la prima volta:

O Dio, nella tua eredità sono entrate le genti / hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie. Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi / in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvatici. Hanno versato il loro sangue come acqua / intorno a Gerusalemme.

Recitiamo insieme il ritornello, in italiano ed ucraino: liberaci, Signore, per il tuo Santo nome. Non solo o non tanto dalla morte fisica, che qui è parte del quotidiano e lo sarà chissà ancora per quanto; piuttosto, come spiega il vescovo, dal pensare che il dolore dell’altro non ci riguardi. Che il dolore del vicino, del fratello, dello sconosciuto, non sia parte del nostro. Che il dolore di Cristo sulla croce, in fondo, riguardi lui e basta. Liberaci dalla solitudine del cuore, dalla solitudine nel dolore. Liberaci dal guardare al proprio dolore come se fosse l’unico. Il giubileo è speranza di pace, e la pace vera, aggiunge concludendo l’omelia, è quando si vive e si sperimenta la comunione, con Dio e con i fratelli.

Al termine della messa, segue una preghiera a Maria lunga e bella, tipica della chiesa orientale. E poi un inno ucraino. Una signora anziana, col fazzoletto in testa, si alza in piedi a mani giunte e canta con le lacrime agli occhi, nella lingua degli usignoli. Una di noi che le sta a fianco se ne accorge e le prende la mano. Mi avvicino anche io, saluto, lei mi sorride e io l’abbraccio. Dyakuyu, sussurra, e io le ribatto, Dyakuyu a te, a voi. Grazie, grazie. Poi le chiedo il nome. E lei risponde, Nina. Lo dico alla mia compagna di viaggio, che è in lacrime anche lei. Si chiama Nina, ci ringrazia. Ci dice di andare a prendere il the alla tenda. Idite, idite. Andate.

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A Kharkiv, come a Kyiv, non c’è solo la guerra. La città ci ha accolto con una musica allegra e impudente, e ci congeda con un concerto d’organo nel palazzo della Filarmonica, chiuso da anni e riaperto apposta per noi. Poco prima della pandemia, delle bombe e dell’invasione armata, era stato costruito al suo interno un organo immenso, con 5700 canne, il più giovane in Europa. Entriamo in silenzio, spegnendo ogni cellulare per non essere intercettati dai droni, ma lo spettacolo vale il rischio: l’organo riprende vita per noi, sotto le mani di un musicista talentuoso che suona Bach, e poi passa a pezzi di compositori ucraini classici e moderni che non conosciamo: ed è un peccato, perché sono veramente belli. La Passacaglia di Kolessa, La preghiera a voce bassa di Shukh, La Sinfonia in bianco di Nazarov. Grida, l’organo più giovane d’Europa, che la musica ucraina esiste, come esiste la lingua, l’arte, la memoria condivisa di questa terra martoriata. Esiste, sfaccettatura preziosa e irripetibile del mondo, da ammirare e conoscere. Da proteggere, perché sopravviva e continui a suonare nella notte dell’est, come sogna il maestro Yuri Yanko, che di questa sopravvivenza spirituale ha fatto lo scopo della sua vita.

L’ultimo pomeriggio che trascorriamo in città, una parte di noi va a incontrare i sindaci della regione; altri si dividono tra un incontro con gli imprenditori del posto, che cercano di far ripartire l’economia, e gli atleti con cui i più giovani si confrontano in gare sportive. Io, per lavoro e per passione, mi unisco al gruppo che va a visitare uno degli atenei. Kharkiv è una città universitaria, con diverse sedi collocate in vari edifici del centro. Entriamo in quello dell’Università di urbanistica intitolata al famoso architetto Beketov, in un palazzo magnifico dove il compensato riempie parte delle finestre, e ci viene ad accogliere il rettore. Ci porta attraverso sale e corridoî, puliti ed eleganti. Potremmo dire di essere in un qualsiasi ateneo europeo, se non fosse che quei corridoî sono vuoti; se non fosse per le foto appese ai muri di studenti e docenti in divisa, uccisi nei combattimenti per le strade cittadine, o al fronte. Il rettore ci accoglie nella sala seminarî, ci accomodiamo sulle sedie dallo schienale alto intorno al tavolo, insieme ai colleghi ucraini.  Tutto è così normale, che quasi mi scordo dove sono, con chi sono. Le università in fondo hanno tutte un’aria di famiglia: chi ci lavora ci si sente a casa in ogni angolo del mondo. Poi l’app degli allarmi emette il sibilo per segnalare un’allerta, l’ennesima. Il rettore sorride, capisce che stiamo verificando dove sia l’allerta, per capire se scendere nel bunker. Un missile qui arriva dalla Russia in 40 secondi, dice. Siamo stati colpiti 24 volte.

E poi aggiunge parole che resteranno incise per sempre dentro di me, di noi.

«Mi sono chiesto perché siete venuti in questa città così vicina al fronte mettendo a rischio la vostra vita. La guerra è un male assoluto. Distrugge tutto. Distrugge le case, le vite ma anche le anime e le idee. Tutto. Ma c’è una cosa più brutta della guerra ed è l’indifferenza. Voi ricordate a noi che esiste un mondo che non è rimasto indifferente e la vostra presenza ci fa sperare che possiamo vincere questo male che è la guerra. È facile giudicare e dare consigli rimanendo comodi nelle proprie case. Più difficile venire qua per chiedere la pace a Dio. E anche questa vostra preghiera è un atto di eroismo».

Ma cos’è il vero eroismo lo scopriamo attraversando il grande edificio, in parte ancora inagibile. Ai corridoî profumati di vernice fresca si affiancano altri ancora distrutti. L’università dall’invasione ha chiuso solo due settimane, dice il rettore. Il covid ci aveva già insegnato a usare la didattica a distanza, e dal 2022 insegniamo così ai nostri studenti. Ma appena possono vengono a fare un giro qui, per qualche ora, per ricordarsi com’era. Sono stati gli studenti di architettura e ingegneria ad aiutare a riprogettare e ricostruire il loro ateneo, per quando un giorno ci potranno tornare. Quegli studenti con volti da bambini, sorrisi e vestiti eleganti, che sono venuti a salutarci. A mostrarci i loro lavori. A realizzare insieme a noi, con i nostri corpi e i loro, una versione umana di una delle opere di Pistoletto, il Terzo paradiso. La speranza di una pace possibile in un mondo in guerra.

Il missile non è arrivato, nei volti che ci circondano si legge la gioia di sentirsi di nuovo per un po’ in rete con l’Europa; anche alla portineria ci sorridono contenti. Slava Ukraini, diciamo. Loro rispondono allo stesso modo. Se la meritano, la gloria. Per la resistenza armata e per quella silenziosa che costruisce il futuro lavorando ogni giorno, ricostruendo stanze e rapporti, senza sapere se in quaranta secondi verranno di nuovo distrutti. La gloria, e una pace giusta. Una pace vera.