Cogliere le olive nel Viterbese

Cogliere le olive nel Viterbese

La raccolta delle olive, prima un’attività manuale e sociale, è diventata oggi una pratica meccanizzata. Sebbene le donne fossero protagoniste fino agli anni sessanta, ora pochi vogliono raccogliere a mano. I cambiamenti climatici influenzano la qualità e la resa, rendendo sempre più difficile mantenere tradizioni e pratiche agricole.

di Valentina Chiarini

C’era questa vecchia contadina che tanti anni fa mi aiutava a cogliere: eravamo io, una ragazza ucraina e lei, che dava una pista a tutte e due; a fine giornata noi stremate, lei che tutta pimpante ci diceva “pore ciuche, annateve a riposa’”. Quando il primo giorno le indicai il bagno dentro casa, rispose un po’ sprezzante che due gocce d’acqua preferiva farle nei campià.

Se si pensa alla raccolta delle olive come a un’attività nella pace della campagna – la socialità dell’attesa al frantoio davanti al camino, con vino, bruschette e salsicce – va detto che non è così, non più. E se l’aspetto sociale era importante, al frantoio il proprietario restava soprattutto per sorvegliare che l’olio non venisse sottratto o sostituito con un altro. “Prima prima” la raccolta la facevano le donne – nel Viterbese venivano pagate con una bottiglia di olio a pianta. Una giornata di duro lavoro perciò, visto che la varietà Canino, la più diffusa in queste zone, raggiunge un’altezza di cinque o sei metri, e in piena produzione arriva a settanta chili di olive, quantità che si coglieva in un intero giorno. Era ed è un lavoro a cottimo, anche se ora è meccanizzato. Le donne, più o meno fino agli anni sessanta, andavano e tornavano dai campi a piedi, molto spesso erano diversi chilometri. Le più giovani si divertivano anche – per tutte era un modo di uscire di casa; all’andata e al ritorno cantavano, e scherzavano con i ragazzi e gli uomini che incontravano sul loro cammino.

Naturalmente non erano sempre rose e fiori ma quanto, con nostalgia, raccontava una vecchia contadina che tanti anni fa mi aiutava a cogliere: eravamo io, una ragazza ucraina e lei, che dava una pista a tutte e due; a fine giornata noi stremate, lei che tutta pimpante ci diceva “pore ciuche, annateve a riposa’”. Quando il primo giorno le indicai il bagno dentro casa, rispose un po’ sprezzante che due gocce d’acqua preferiva farle nei campi. Scandalizzata dai nostri miseri panini, aveva preso l’abitudine di portarci il pranzo, certi intingoletti da svenire.

Fino ai primi anni duemila quasi tutti coglievamo a mano, poggiando sugli ulivi alte scale di metallo – prima, bellissime, di legno; bisognava farlo con attenzione, perché si rischiava di cadere e fratturarsi un osso. Per staccare le drupe dai rami si usavano dei piccoli pettini, anche questi prima in legno poi in plastica, e intorno al tronco dell’albero venivano disposti i teli su cui cadevano le olive. Si fa ancora così, tirare i teli col raccolto è sempre una gran fatica. Alcuni ancora mettevano le olive in sacchi di iuta – ora tutti usano cassette in plastica traforata per non farle irrancidire – e ce le facevano restare un bel po’ di tempo prima di portarle a molire. Cominciavano a cogliere l’otto dicembre per la festa dell’Immacolata, continuando anche a gennaio; quell’olio non era certo un granché, né come gusto né come proprietà nutritive. Le squadre che raccoglievano manualmente sono scomparse, chi ne faceva parte ormai è invecchiato; competere con la velocità della meccanizzazione è impossibile, e i giovani non vogliono più cogliere a mano. Perciò è diventata un’attività completamente meccanizzata – e rumorosissima – cui ricorrono non solo i produttori professionisti, ma anche la maggior parte dei piccoli proprietari che “fanno l’olio per casa”. Inoltre la raccolta manuale non conviene, per il costo e perché così protratta nel tempo si abbassano le qualità organolettiche e nutritive.

Da queste parti si coglie in due modi: il primo consiste in due pettini, le cosiddette “manine” perché si aprono e si chiudono, attaccati a un’asta telescopica pesante cinque chili. A farli vibrare è un compressore collegato all’asta. Negli uliveti più estesi e con grandi alberi si usa, invece, un braccio simile a quello di uno scavatore, lungo fino a sei metri e attaccato al trattore; all’estremità del braccio c’è un pettine di un metro che vibra e si muove agilmente in tutte le direzioni. Entrambi, con buone squadre, permettono di raccogliere fino a quindici quintali di olive al giorno; si portano al frantoio ogni sera e la molitura avviene la stessa notte, ottenendo quindi un olio di qualità. Naturalmente quando si usa il pettine la procedura è più veloce che con le aste, e tirare i teli carichi diventa ancora più faticoso. Manovrare il pettine è un lavoro specializzato che richiede sensibilità per la pianta: il primo anno che cogliemmo nei nostri attuali uliveti, quasi tutti grandi ulivi Canino, il trattorista per andare veloce procedeva senza riguardo, e a fine raccolta sembrava che quei poveri alberi fossero stati frustati. È sempre più difficile trovare squadre di coglitori; gli operai, fino a una decina di anni fa prevalentemente rumeni, ora sono tutti africani. È un lavoro molto faticoso, spesso mal pagato, per sua natura incerto. Ci sono le annate scarse e quelle senza olive, un disastro per i produttori e per le squadre. Ma questa è l’agricoltura, sempre. Noi la raccolta la facciamo in parte con le aste – a volte uno dei figli dà una mano per un giorno o due – in parte con il pettine. Nei giorni in cui la squadra non può venire, a lavorare con le aste ci sono soltanto mio marito e un paio di ragazzi. Dalle nostre parti, di norma (anche se la normalità non esiste più), il periodo di raccolta ottimale per un olio di alta qualità sarebbe, a seconda delle varietà, da metà ottobre a metà novembre.

Nel giro di pochi anni, tuttavia, si è diffusa la moda di cogliere prima della giusta maturazione delle olive, quando le olive ancora acerbe non hanno raggiunto l’invaiatura diventando nere e verdi. Ma alcuni produttori vogliono essere fashion, e ormai i frantoi aprono già a fine settembre. Poi ci sono i cambiamenti climatici; ora è necessario irrigare se si vuole avere produzione e qualità. Quest’anno però è stato talmente caldo e siccitoso che non è bastato: l’enolizzazione, la formazione di olio nella drupa, non ha funzionato a dovere e la resa è bassissima. C’è chi dice sia stata la grande siccità, chi dice il troppo caldo, chi tutta quell’acqua e quel fresco a settembre. Una teoria interessante è che la bassa resa sia dovuta alla mancata escursione termica tra giorno e notte. Insomma, nei frantoi file lunghissime di trattori e macchine e tanta, tanta preoccupazione. Da anni ormai si coglie in maglietta e mentre scrivo, a novembre inoltrato, fa un gran caldo e il sole picchia. Guardo l’ulivo che ho di fronte, con i suoi due tronchi come attorcigliati; chissà cosa prova in tutto questo scompiglio.

FOTO Renata Romagnoli, Latina 2016