Partita a pugni sulla statale 156

Partita a pugni sulla statale 156

L’indirizzo poi, Strada dell’Alto Sbirro, era pure inquietante ma una volta dentro t’accoglieva il pubblico delle feste di paese. In cartellone poi, una batteria di dilettanti a contorno di un solo match prof, bastava a fare ressa sotto un ring stretto sulla parete di fondo, palcoscenico d’una partita a pugni fomentata dalle smadonnate del tifo…

di Claudio D’Aguanno

Il Palasport Diego Solito è un capannone tra i tanti sparsi nell’area commerciale di Borgo San Michele, un tempo villaggio operaio della Bonifica, oggi periferia sud est di Latina, segnato da strade tutte con nomi di scrittori del secolo scorso e la migliara 43 a fare da First Avenue. Fuori dell’abitato la statale 156 fila diritta per Frosinone e la deviazione da prendere per raggiungere la riunione scantona verso la campagna passando le luci d’un distributore notturno, la cancellata di qualche azienda decotta, l’insegna di un consorzio per lo sviluppo industriale dell’agro nonché tracce ancora vive d’insediamenti sopravvissuti a qualsiasi scadenza di legge e di governo.

Arrivare da quelle parti, la prima volta che ci sono capitato, non la ricordo cosa semplice e la serata buia sotto luna nuova ingannava l’orientamento. L’indirizzo poi, Strada dell’Alto Sbirro, era pure inquietante e, per compenso, il nome del promoter Parisi, soltanto omonimo del grande e sfortunato campione di Voghera, rimandava al boss locale d’una delle tante DC “della diaspora”, senza più cielo né segretario unico, sopravvissute alla frantumazione del novantaquattro. In ogni caso, per quanto riguarda la meta della serata, a dare una direzione di marcia ci pensava un corteo di macchine e la polvere sollevata al passaggio. Una volta dentro t’accoglieva il pubblico delle feste di paese. In cartellone poi, una batteria di dilettanti a contorno di un solo match prof, bastava a fare ressa sotto un ring stretto sulla parete di fondo, palcoscenico d’una partita a pugni fomentata dalle smadonnate del tifo di casa.

In un teatro del genere c’hanno recitato matricole acerbe e candidati maturi per le Olimpiadi, professionisti affermati e mestieranti di lungo corso, promesse perse per strada o all’opposto pugili veri protagonisti di match importanti. Pietro Aurino, quello che Lucio Zurlo “il maestro”, sessantaquattro anni di Boxe Vesuviana sulle spalle, t’aveva battezzato come “il Maradona del ring”, il talento della Plovolera ovvero quartiere Polveriera di Torre Annunziata, peso massimo da medaglia d’oro e capace di arrivare al titolo europeo per poi farsi stendere da storie di droga e mala, è qui che ha provato invano, appesantito da anni di galera, il suo rilancio.

Vicenda di segno diverso quella di Giovanni De Carolis, l’ultimo pugile italiano a vincere un titolo mondiale categoria supermedi WBA, che tra queste corde ha cominciato a mettere insieme round e esperienza. Classe 1984, romano cresciuto tra la Garbatella e Montagnola, vent’anni di carriera con all’angolo insegnanti di qualità come Italo e Gigi, proprio in questi giorni ha dichiarato il suo ritiro dal professionismo. Ex studente di Architettura, Giovanni da ragazzo si muoveva bene anche sui campi di calcio, poi l’attrazione delle sedici corde ha avuto la meglio. Ha lasciato la maglia dell’Almas e gli scarpini infangati per i guantoni da 10 once consumati dal sudore e dalla fatica della palestra. E nelle più diverse situazioni, vittorie fortemente volute o sconfitte anche dolorose, mai ha rinunciato alla sua boxe lineare, “di testa”, ben impostata e rispettosa d’una tradizione d’arte nobile. Ma spesso, su questo ring, è piuttosto l’altra boxe, quella “di pancia” interpretata dai perdenti per calcolo o vocazione, a trovare il suo teatro d’elezione. E De Carolis e il suo pugilato di valore, in grado di battere in anni a venire Vincent Feigenbutz per kot alla Baden Arena o di reggere con stile anche l’assalto del più giovane Tyron Zeuge alla Max-Schmeling-Halle di Berlino, quella volta non riuscì a risolvere, oltre un verdetto ai punti, la sfuggente e arruffona boxe di un romeno di nome Mugurel. Quella sera il romano aveva già davanti a sé le strade d’Europa ma il rivale, smagato globetrotter proveniente dal Ponto, là dove Ovidio causa “un carme e un errore” si trovò a smaltire la noia d’un esilio senza ritorno, aveva negli occhi solo la strada di casa e una borsa, “una piotta a round o su di lì”, da portare a tana senza rime né cazzate.

Quello del perdente è un mestiere serio. Nel mondo ha tanti nomi, tanti termini in slang, ma se la categoria dovesse mai scegliersene uno preferirebbe certo quello di journeyman. Alla qualifica di viaggiatore si richiamava l’inglese Peter teacher Buckley, un curriculum cresciuto tra jab e uppercut, ganci incassati e ridati, più incassati che dati. Peter viene da Birminghan e tra le sedici corde c’è salito 300 volte, perdendone 256 ma svezzando in guantoni everlast una ventina di futuri campioni del mondo tra cui Naseem Hamed the Prince. All’ultimo suo match, quello del ritiro, c’erano i corrispondenti di una dozzina di quotidiani nazionali più una folla di commentatori tivvù. E Peter, nella sua ultima lectio, ha chiuso battendo un tale Mohammed che forse dovrà proprio a questo verdetto ai punti l’unico flash di notorietà della sua vita. Nella Hall of Fame delle “stars al contrario” c’è sicuro Reggie Strickland da Cincinnati, un medio ritiratosi con un gruzzolo di 363 incontri e non tutti persi, ma, numero uno, brilla Kristian Laightun detto The Reliable, l’affidabile. Laightun, 140 libbre standard ma quattro categorie di peso frequentate, è cresciuto nel Warwickshire la contea di Shakespeare, ed è, come il più famoso William, un recordman nel suo campo: 300 incontri, 279 sconfitte ma solo 5 prima del limite. Is the art of matchmaking – fa il promoter Sean Gibbons, e guai a parlargli di cose truccate o a storcere il naso sul gioco della bilancia che porta questi operai del ring una volta a combattere da leggero, la settimana dopo da welter e magari dieci giorni dopo scendere di dodici chili a piuma.