di Giuseppe Cocco e Albano Rossano Sanavio
Stavamo lasciando l’hotel, un ex convento spagnolo del ‘600, dove eravamo ospitati, per andare in Guatemala. Prima di partire, sullo slargo dello Zócalo, poco più in là, un accalcarsi di persone ha chiamato la nostra attenzione: sarà una processione religiosa? Ci siamo piazzati in alto in modo da poter vedere la folla che si avvicinava. Uomini, donne, bambini, vecchi, carri trascinati a mano
Tutti e due avevamo partecipato all’orda d’oro: gli operai autonomi di Porto Marghera, i pendolari del basso Piave e del piovese, gli studenti medi. Però ci siamo conosciuti a Parigi, grazie a Paola, una migrante di Piove di Sacco (Padova) che ha vissuto il mondo con gioia. Ci siamo raccontati le nostre esperienze di lotta e le traiettorie di vita: Rossano nell’Italia da bere degli anni berlusconiani, Beppo nella Parigi mitterrandiana. Decidemmo di andare in Messico con le nostre compagne.
Quel viaggio è stato quasi un’iniziazione all’America Latina, dove uno di noi (Beppo) vive da 30 anni (a Rio de Janeiro). Parlare di viaggi non è il nostro abito. Ci fanno pensare a Claude Lévi-Strauss che inizia il suo incredibile diario di viaggio, Tristes Tropiques, dicendo che odia i viaggi e gli avventurieri. Ma ci fa pensare anche allo stupore che ci suscita la lettura di vari intellettuali europei (soprattutto italiani) che, grazie a soggiorni di alcuni giorni, riescono a capire e scrivere non solo sulla città che han visitato, ma addirittura su tutto il continente e lo fanno in nome della critica decoloniale all’eurocentrismo.
Nel corso di quel viaggio, tre esperienze ci han colpito: il Chiapas, il Guatemala e lo Yucatan. Dello Yucatan parleremo nella prossima cronaca.
Passammo una decina di giorni a San Cristobal de Las Casas. A 2100 metri di altitudine, la città coloniale è una delle più antiche delle Americhe. Fu fondata nel 1528 dopo che gli spagnoli sconfissero le etnie Maya della regione. Deve il suo nome al suo primo vescovo, fratello del celebre Bartolomeo de Las Casas, quello della controversia di Valladolid durante la quale il dominicano fu tra i primi a difendere i diritti degli indigeni. Eravamo dunque nel cuore dello stato di Chiapas, al confine con il Guatemala, circondati dalle montagne dove nei villaggi indigeni, come Chamula, si poteva assistere a riti sincretici nella chiesa della piazza e, scendendo a valle di sera, si respirava l’aroma intenso del legno bruciato nei focolari. Il contrasto tra la città e i villaggi era impressionante così come nel mercato in città, totalmente occupato dagli indios e dove si poteva sentire la musica delle loro lingue o di un castellano parlato con un accento molto dolce, quasi cantato.
Stavamo lasciando l’hotel, un ex convento spagnolo del ‘600, dove eravamo ospitati, per andare in Guatemala. Prima di partire, sullo slargo dello Zócalo, poco più in là, un accalcarsi di persone ha richiamato la nostra attenzione: sarà una processione religiosa? Ci siamo piazzati in alto in modo da poter vedere la folla che si avvicinava. Uomini, donne, bambini, vecchi, carri trascinati a mano o con animali da giogo, animali da cortile in gabbia o al guinzaglio, accalcati tra le strette arterie. Alcuni carri con simboli e addobbi religiosi rigorosamente bianchi, tra tulle, volant e pagliuzze ospitavano donne vestite da madonne, bimbette come angioletti, una santa stesa su un letto di garofani rossi. Altri carri con attrezzi da lavoro, zappe, vanghe, rastrelli e sacchi annodati per il trasporto a spalla.
In realtà era un corteo, organizzato per spezzoni. I componenti di ogni blocco vestivano gli stessi costumi (che cambiavano ad ogni blocco) che corrispondevano al loro villaggio, alla loro etnia. I colori vivaci degli ornamenti disegnavano un corteo variopinto, ma completamente silenzioso: niente slogan, nessun brusio, solo il rumore dei loro passi. Gli striscioni e i cartelli con testi in rosso rivendicavano la distribuzione della terra, l’accesso all’acqua, una paga dignitosa, la libertà per parenti e compagni incarcerati e la fine della violenza contro gli indios. Con la sola Minox a disposizione, Rossano scatta le ultime diapositive disponibili.
Comandava il silenzio sotto un cielo con nubi basse che correvano veloci spinte dall’aria frizzante e che quasi si potevano toccare con mano. Faceva pensare a Messico e Nuvole di Enzo Iannacci, la “faccia triste dell’America”. Il silenzio degli “indios” emanava una sensazione di grande tristezza. Ma quello era il formarsi del movimento neo-zapatista. Il sollevamento del primo gennaio del 1994, proprio a San Cristobal de las Casas, non era l’inizio, ma un momento che sembrava indicare un nuovo cammino per le lotte nella globalizzazione rampante. La retorica di Marcos era parossistica: da una parte era il leader, ma solo il sub-comandante. Dall’altra, dichiarava l’inizio della “Quarta Guerra Mondiale”, ma diceva che si doveva avere le armi per non usarle, “mandar obedeciendo”, “caminar preguntando”. Il discorso era no-Global, ma i movimenti cominciarono ad essere globali: a Seattle, a Porto Alegre e a Genova.
Stavamo al di qua del nuovo muro che cominciò ad essere costruito l’11 settembre 2001. Curiosamente, nel momento invece che questa “guerra” è diventata critica fascista al globalismo (Orban, Trump, Salvini, Bolsonaro) e una vera guerra (Putin contro l’Ucraina), quelli che quelli che parlavano di resistenza nel Chiapas ora difendono la pace dell’oppressore, cioè la resa degli ucraini.
Da li siamo partiti per il Guatemala. Lo spaesamento è ancora più grande. Da una parte, Antigua, città coloniale spagnola che ha finito per vivere con i terremoti, lasciando i fiori crescere nelle brecce e fratture che solcano palazzi non più ricostruiti che sfoggiano l’imponenza della loro storia così come quella ancora più inquietanti delle cicatrici sismiche esposte. I fiori avevano gli stessi colori dei costumi che ognuno vestiva in un incredibile gioco di omogeneità interna ad ogni villaggio e differenza tra un posto e l’altro. Dall’altra, il lago Atitlán, con i poverissimi campesinos indigeni che coltivano cipolle sulle colline e un’inquietante atmosfera di terrore. In una chiesetta sulle rive del lago, una lista interminabile e struggente di scomparsi nella repressione militare.
FOTO Aldo Bressi, San Sosti (Cs), anni ’80

