di Claudio D’Aguanno
Ristabilito il governo pontificio cominciarono i processi e le persecuzioni. Per l’uccisione di due papalini furono arrestati tre miei concittadini e più per induzione che per prove dirette, condannati a morte, poi commutata la pena nella galera a vita indi deportati al Brasile. Di là, a piede libero, breve tempo durarono a scrivere alle loro famiglie, poi non se ne seppe più nulla.
Pellegrino Artusi, Autobiografia
In Italia i primi a pensare di scaricare all’estero un po’ di teppa galeotta furono i Borbone. Il verbo esternalizzare nel 1820 non esisteva e nella Convenzione stipulata tra il Re di Napoli con quello di Portogallo e Brasile si parlava piuttosto di trasporto e consegna di un certo numero di reclusi. Decenni dopo nel neonato Regno d’Italia la questione di come liberarsi di migliaia di “criminali meridionali” prese nome di deportazione e colonizzazione penitenziaria. Un primo ministro sabaudo come Luigi Menabrea marchese di Valdora si diede un gran daffare. Promosse ricerche, favorì spedizioni di avventurieri, spedì uomini di fiducia un po’ ovunque in giro per mari e continenti in cerca d’un luogo dove trasferire interi paesi accusati di connivenza coi briganti, ex militari borbonici irriducibili, detenuti politici renitenti al nuovo ordine, quelle genti del Sud “affezionatissime al proprio suolo e invaghite del proprio cielo”.
Lo sguardo risorgimentale di casa Savoia prese per l’occasione a correre dalla Patagonia all’isola somala di Socotra, dal deserto del Marocco alle Nicobare nel Golfo del Bengala con puntate lungo le coste della Malesia, dal Borneo alle Molucche. Sforzi persi nel nulla. Saranno poi i governi dei siciliani Crispi e Rudinì, nella repressione di Fasci siciliani e “gente di mala fama”, a aprire in Eritrea le colonie coatte di Nocra e Assab, destinate prima a italiani “sovvertitori delittuosi” e diventate sotto il fascismo campi di sterminio per gli sconfitti della campagna d’Etiopia, per capi tribù e ribelli, per maghi e indovini ostinati nel predire la fine del dominio italiano.
In tanto festival di geografia penale qualche pagina di buona narrazione se la guadagnò, all’epoca dei fatti, pure la monarchia papalina anch’essa votata a sperimentare le rotte atlantiche dove forzare l’esilio di suoi detenuti. La vicenda prese nome di “Colonizzazione di Civitavecchia”, dal nome del porto d’imbarco destinazione Brasile, e ebbe protagonisti oltre i deportati un buon numero di ministri brasiliani, alcuni faccendieri agenti per conto di fantomatiche Compagnie di Protezione degli emigranti di Bahia, uomini di corte come Carlo Armellini, futuro triumviro della Repubblica Romana, e soprattutto Luigi Lambruschini, Segretario di Stato vaticano, “frate vile di porpora vestito”.
Nell’anno del Signore e d’Er còllera mòribbus
Il 1837 per Roma è soprattutto l’anno dall’epidemia di Colera. Il morbo partito più di vent’anni prima dall’India già da mesi dilagava in Italia e lo stesso Belli, con buon anticipo, aveva preso a scriverci sonetti. In realtà oltre la “porca malattia infernale” è la situazione interna a smuovere le cose. Sulla tranquillità di governo pesava ancora l’eredità dei moti che diverse stagioni prima avevano scosso le Legazioni e la Romagna. Quella del ’31 era stata infatti una vera insurrezione arrivata in Italia sull’onda delle Trois Glorieuses, le giornate di luglio che in Francia avevano abbattuto il potere di Carlo X. Papa Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Alberto Cappellari, non aveva manco fatto in tempo a benedire l’amato popolo romano, e soprattutto a “fa aridà li peggni e rivotà le carcere de ladri”, che si ritrovò Bologna liberata con “Governo Provvisorio delle Province Unite Italiane”. Le scosse della “turba smaniosa” s’erano poi propagate a Marche e Umbria. Il pontefice s’era così sbrigato a fare appello all’Austria attirandosi, per tale affanno, lo scherno di Pasquino: “Povero Papa! e quant’è cacone, / Chè ssi passa ‘na rondine che ffisschia, / La pijja pe’ ‘na palla de cannone!”
Repressi i moti di piazza, assolta l’incombenza di mandare al boia un po’ di carbonari, centinaia furono i condannati a pene variabili da pochi anni al carcere a vita. Nel 1837 un buon numero, circa 514, erano ancora reclusi nella fortezza di Civita Castellana. A 62 di loro venne offerta l’opportunità del “lavoro” oltreoceano. Ad essi si aggiunsero un certo numero di “condannati per titoli comuni” e anche di civili, migranti volontari con mogli e figli, più tre frati.
I reati dei “politici” erano svariati e di ampio spettro: andavano dall’accusa di omicidio “per spirito di parte” alla sedizione e tumulto con profanazione di chiesa “in conventicola armata”, dalle bestemmie e intimidazioni al parroco con “sparo di fucile in luogo immune senza offesa” alla “cospirazione e aggressione armata mano con esplosioni contro le forze dei pontifici Carabinieri”. Tra i “comuni” invece faceva chiasso il caso passionale d’un medico chirurgo reo di fatto di sangue e di tale Mazzocchetti di Macerata che in “spreto di precetto” si era sottratto “alle disposizioni di non uscire di casa dopo un’ora di notte e di essersi riunito di sera, in casa di una tal Tamagnini da San Ginesio, donna di poco buon nome, per gozzovigliare con lauta cena imbandita con cibi di grasso e magro, pur essendo di venerdì”.
Tutta la compagnia, un totale di 114, prese il largo il 9 febbraio 1837. Dopo uno scalo a Tenerife il brigantino Madonna delle Grazie al comando di Alessandro Cialdi approdò a Bahia il 22 aprile. Per dieci giorni fu negato lo sbarco. Un Salvini locale, ogni epoca il suo, accortosi che la mano d’opera importata non di “onesti lavoratori” era composta quanto, soprattutto, di “facinorosi politici” tenne tutti in stato di sequestro al largo. Passata quarantena gran parte dei migranti riuscì comunque a inserirsi, qualcuno dopo un po’ andò a cercar fortuna altrove ma un buon terzo di loro, tanto per non perdere il dialetto di casa, si trovò coinvolto in una sommossa indipendentista, A Sabinada na Bahia, che per mesi agitò il Brasile nordorientale. Per i nostri il fatto non fu senza perdite ma, concordano le cronache, fu proprio l’indole rivoltosa degli “esiliati romani” a far fallire ogni trattativa di future spedizioni di detenuti.
FOTO Albano Rossano Sanavio, Futebol, Venezia, 2016

