di Peppe Stamegna
Arriviamo al cancello e c’è un fuggi fuggi in giardino. Ci passa davanti un ragazzo che corre verso il muretto, ci nota, rallenta, e col fiatone ci fa: prendeteleee! Non capiamo, quindi non le prendiamo, intanto lui si è già ficcato come un gatto dentro al pitosforo perimetrale: ne esce tenendo per mano due ragazzine cogli occhi nerissimi e facce smorfiose. Una delle due ha la maglietta strappata. Compare la responsabile sulla porta che dà sul giardino, indossa una parannanza bianca con delle colombe stilizzate. Sembra una mezza suora, una mezza zia. Scruta la scena, poi ammonisce: che avete combinato? Pensavo ce l’avesse con noi per non aver preso al volo le fuggiasche, invece con gli occhi va dritta verso i tagli ai polsi delle due ragazzine. Si mette le mani sui fianchi, alza gli occhi, poi mi fissa per qualche secondo e ordina: portale in ospedale! Ma io sono tirocinante… non so… Parole al vento, poiché mi mette subito in mano un portachiavi con una madonnina penzolante: tanto ce l’hai la patente, no?
Metto in moto una centoventisette verde bottiglia, e un attimo dopo mi ritrovo nel traffico con le due ragazzine sui sedili posteriori coi loro polsi fasciati da cerotti scuri di sangue.
Tutti quelli che sorpassano ci mandano affanculo da labiali e dita inequivocabili. Non capisco, ma proseguo come se niente fosse. Non conosco le strade, ci perdiamo. Chiedo a un vicino di coda: scusi, per l’ospedale? Quello mi dà indicazioni complicatissime con fare gentilissimo, forse impietosito alla vista delle ragazzine ferite, e riparte augurandoci buona fortuna. Ma un attimo dopo ci manda affanculo pure lui. Ci rimango male, rimugino sulle cattive abitudini degli automobilisti romani. Proseguiamo, ma già dell’arancione del semaforo successivo, sento uno sguardo addosso, mi volto: uno con due baffoni e una camicia fiorellata tutta sbottonata ci punta la mano a mo’ di arma, poi spara: a zincari, io ve sfonno! Chiedo scusa, farfugliando, ma peggioro la situazione, accecato com’è per l’affronto subito, il baffone tira il freno a mano e per poco non riesce a entrare dal finestrino con tutta la sua corpulenza. Scatta il verde e ci ritroviamo in una scena americana mentre sgaso e sorpasso a zig e zag.
Al semaforo successivo mi volto verso le due, e me le ritrovo col dito medio puntato contro un altro vicino di auto: in pratica stavano sfanculando l’intera coda sulla tangenziale del dopo-ufficio romano. Le cazzio timidamente, poiché, anche se stanno sfanculando il mondo, sono pur sempre due che si sono da poco tagliuzzate le vene.
Arriviamo finalmente al pronto soccorso del Pertini, dall’altra parte della città.
Le infermiere tranquillizzano immediatamente le ragazze, se ne prendono cura, e pare che stiano lì apposta per medicare solo ragazzine con le vene tagliate: sembrano si siano specializzate solo per loro due, tanta è la dedizione. Ne beneficio anch’io di quelle cure: perché volteggiano nell’aria della medicheria, e sono a disposizione di tutti. Da una sedia di ferro beige osservo le due sfanculatrici: si lasciano medicare rilassate, e ora sembrano ragazzine come tutte le altre ragazzine del mondo. Potrebbero essere mie sorelle, ho vent’anni e vivo a Roma da pochi mesi, senza arte né parte, con pochi soldi, con due genitori al paese che non sanno nemmeno cosa ci faccio qui a Roma. Eppure, in questa stanza di ospedale ci sentiamo tutti accolti: pare abbia un senso per me fare l’operatore sociale.
Mentre firmo i documenti per andare via, spariscono le sfanculatrici incerottate. Corro lungo i corridoi larghi, entro nei bagni, vado al bar, niente, non le trovo. Esco col pensiero a piombo sullo stomaco su come affrontare la mezza suora: che le dico? Avanzo a testa bassa verso il parcheggio, maledico la scelta di fare l’operatore sociale: vuoi aiutare gli altri, ma se sei tu che ne hai bisogno?
A scemo, do’ stavi? Mi fa quella più alta delle due, seduta sul cofano. Le cazzio, poi svengo. Mi ritrovo sdraiato con loro ai lati della lettiga, e quella più piccolina che mi tiene la mano. L’infermiera, quella di prima, sorride: ve siete affezionati a me? Mi controlla il cuore, la pressione, poi andiamo al bar insieme, ci offre un cappuccino. Scherziamo, chiacchieriamo, e mi sento nella città più bella della terra, nonostante stia in un ospedale che puzzi ancora di nuovo, in piena periferia, e non davanti al Colosseo. In quel bar ospedaliero coi cappuccini nei bicchieri di plastica, ho iniziato a legarmi in eterno a questa città.
Durante il rientro cantiamo a squarciagola, e ai semafori le due ragazzine coinvolgono nei canti pure gli automobilisti stressati ai semafori, e alla fine è bello vederli sorridenti quando ripartono col verde. Le due però sfanculano un’ultima volta, me stavolta, quando prendo malissimo l’ultima curva su via di Boccea. Subito però mi toccano i capelli, mi fanno il solletico: ‘a belli cape’, mica sei Senna, eh! E ridiamo nemmeno stessimo andando al mare in un sabato pomeriggio qualunque.
La mia ansia di gloria agogna di trovare tutti gli abitanti della casa famiglia davanti al cancello ad aspettarci. Invece li ritroviamo più o meno tutti a guardare il festivalbar sbracati sui divani. La mezza suora mi ringrazia, rimprovera affettuosamente le due, e poi continua a sistemare la cucina. L’educatore che si era infilato nel pitosforo sta discutendo con un adolescente in tuta acetata, con accento siciliano: i loro occhi, a un centimetro dalla lotta, urlano solo vocali aperte.
Racconto a Enrica le mie peripezie, e lei, con un bimbo in braccio che succhia da un biberon il latte, mi sorride, poi mi dà un bacio e torna a dedicarsi al neonato. Sì, è stata già risucchiata dal clima di assurda normalità di questo posto. Fino al giorno prima era inimmaginabile, quando, sempre da tirocinanti, stavamo alla Casa dei diritti sociali a pitturare le nuove stanze destinate ai corsi di italiano per stranieri. Sì, il nostro vero battesimo come operatori sociali è avvenuto oggi tra biberon, vene e festivalbar.
FOTO: Aida Bressi, Damasco, 2007

