di Marco Maurizi
La scuola pubblica italiana vive da anni una crisi profonda, aggravata dalla polarizzazione politica che ne distorce la natura e le possibili soluzioni. Da un lato, la destra sovranista denuncia il presunto fallimento delle politiche educative progressiste, accusate di aver sacrificato il merito sull’altare dell’inclusività. Dall’altro, una certa pedagogia di sinistra rifiuta persino di riconoscere il problema, rispondendo con moralismi che non affrontano le cause strutturali. Entrambe le posizioni, però, mancano di un elemento fondamentale: la comprensione del rapporto tra crisi scolastica e dinamiche materiali della nostra società.
Radici storiche della crisi scolastica
Le radici della crisi della scuola pubblica affondano nelle trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni, che hanno progressivamente subordinato l’istruzione alle logiche del mercato. A partire dagli anni ’80, con l’affermazione del neoliberismo, la scuola è stata sempre più concepita come uno strumento di formazione della forza lavoro piuttosto che come un luogo di emancipazione collettiva. Le riforme che si sono susseguite, spesso giustificate dall’esigenza di modernizzare il sistema educativo, hanno indebolito il ruolo critico della scuola, spostando il focus dal sapere disciplinare alla promozione di competenze immediatamente spendibili. Questo processo ha ridotto l’autonomia del lavoro docente e svuotato il sapere della sua dimensione trasformativa, lasciando spazio a un’istruzione funzionale alle esigenze del capitale. Dall’autonomia scolastica alla burocratizzazione della didattica non c’è aspetto della scuola che riesca a sottrarsi a questa logica.
In tal senso, la recente polemica sui voucher è emblematica: da un lato, è l’esito conseguente di un progetto di lungo periodo che la destra persegue con coerenza; dall’altro, dimostra quanto poco la sinistra sappia contrapporvisi efficacemente.
L’impotenza della pedagogia progressista
Sul fronte progressista, infatti, la pedagogia di sinistra non solo ignora le radici materiali della crisi, ma contribuisce in modo inconsapevole a rendere la scuola più vulnerabile ai processi di privatizzazione. L’attacco all’autonomia del lavoro docente si rivela, infatti, funzionale a un disegno più ampio di destrutturazione del sistema pubblico. L’iper-burocratizzazione è lo strumento con cui si rende subalterna e dipendente la prestazione che nasce estranea alle dinamiche di mercato. Ciò che spesso sfugge è che l’autonomia del lavoratore della conoscenza è inscindibile dall’autonomia del sapere stesso.
La pedagogia progressista tende a spostare l’attenzione dal contenuto disciplinare verso innovazioni didattiche che, sebbene presentate come progressiste, finiscono per sviare il focus da ciò che rende il docente un intellettuale della conoscenza sui generis. Questo spostamento si manifesta anche nell’enfasi su tematiche come la cittadinanza e l’educazione civica, che vengono trattate come elementi esterni al sapere disciplinare piuttosto che come esiti naturali di un percorso di critica e costruzione di valori interni alle discipline. Lo stesso dicasi per l’enfasi posta sul vissuto degli studenti e il continuo attacco alla natura intrinsecamente “autoritaria” dell’insegnamento.
Una proposta materialista
Per affrontare la crisi della scuola, è necessario piuttosto ribadire la centralità del sapere disciplinare e dell’autonomia del lavoro docente. Solo così la scuola può tornare a essere un luogo in cui il sapere critico si sviluppa in modo autonomo e in cui la relazione educativa non si riduce a un semplice adattamento alle logiche di mercato. L’autonomia scolastica di cui abbiamo bisogno non è quella che riduce le scuole ad aziende in competizione tra di loro sul mercato della conoscenza, ma quella delle componenti del mondo della scuola dal mercato in quanto tale.
Non basta infatti ripensare la scuola al suo interno. La crisi dell’istruzione riflette anche un vuoto di democratizzazione reale che va oltre le mura scolastiche. La mancanza di contestazioni politiche e sociali nelle piazze, di movimenti collettivi che sfidino l’ordine neoliberista, rende impossibile per la scuola mantenere un legame vivo con le lotte per l’emancipazione. Democratizzare la relazione tra docente e studente all’interno delle aule senza una democratizzazione più ampia della società rischia di essere un’illusione idealistica. Anzi, rischia di rafforzare la pervasiva penetrazione del disciplinamento capitalista all’interno delle mura scolastiche.
La scuola tradizionale: decostruzione di un mito
Per fare ciò è essenziale smantellare il mito della “scuola tradizionale”: si tratta di uno strumento narrativo costruito tanto dalla destra quanto dalla sinistra pedagogica per giustificare interventi opposti, ma ugualmente repressivi. La destra la utilizza per richiamare un passato idealizzato in cui l’autoritarismo del docente garantiva disciplina e risultati; la sinistra pedagogica, invece, la evoca per contrapporle una scuola più fluida e inclusiva, che spesso rischia però di svuotare il sapere di contenuto. In entrambi i casi, il docente viene subordinato a un potere esterno che lo limita, e il sapere viene piegato a fini che sono elaborati altrove.
L’elemento di rottura è qualcosa che può costituirsi soltanto all’interno del sapere ed è questo che anche gli studenti percepiscono come liberante ed emancipativo: non la critica al fantoccio dell’autoritarismo che pretende metterli “al centro” riducendoli a clienti, bensì l’immersione in una sfera della conoscenza che dissolve quelle polarità illusorie. Il docente deriva infatti la propria autorevolezza dal fatto che egli pone al centro del suo insegnamento non sé stesso, né gli studenti o tanto meno l’istituzione, bensì il sapere come forma del legame. E va da sé che soltanto una società che consideri il sapere qualcosa per cui valga la pena lottare scopre nel sapere gli strumenti fondamentali per la lotta di cui ha bisogno e torna a restituire alla scuola il valore che le viene negato quando la releghiamo al ruolo di agenzia formativa.
FOTO: Aida Bressi, Damasco, 2007

