di Valentina Chiarini
In un modello sociale largamente fondato sul mangia e bevi, si potrebbe pensare che il produttore di vino faccia sogni d’oro. Probabilmente questo vale per i soci e i dirigenti delle grandi aziende, quelli che percepiscono cospicui stipendi e laute pensioni. O per i furbastri, quelli campano comunque. I piccoli produttori che cercano di tirare avanti con il proprio lavoro, essendo destinati all’estinzione non trascorrono notti altrettanto tranquille. Qualunque viticoltore professionale – considerando piccole produzioni con una capacità massima di 30-40.000 bottiglie all’anno – sa che, conti alla mano, vendere il vino a un prezzo più competitivo di quello chiesto mediamente dalle grandi aziende significa fallire perché le spese, impossibili da ammortizzare, supererebbero l’incasso netto (s’intende al netto anche di pensioni, stipendi del coniuge, ricavati da affitti o altri proventi). Vendere il vino sfuso abbassa un po’ i costi di produzione, ma il guadagno è talmente basso che non conviene, perciò si vende sfuso soltanto il vino che non si riesce a vendere imbottigliato. Ma dove piazzare queste bottiglie di vino?
Uscire dalla nicchia, dove i piccoli produttori sono finiti per forza di cose e non perché sia un segno distintivo – e che spesso è talmente ridotta da essere quasi un buco nel muro – è la speranza di tutti, visto che la nicchia, quasi sempre, non permette di vendere tutto il vino necessario e al giusto prezzo per reinvestire nella produzione e per campare. Il sogno di ogni piccolo produttore, allora, più che “dal trattore al tappeto rosso” è il principe azzurro con il biglietto da visita del grande distributore o della catena di ristoranti più o meno chic – anni fa poteva ancora succedere, e il biglietto spesso era scritto in cirillico o in ideogrammi cinesi. Solo che per incontrare questo principe azzurro e ottenere il giusto ricavo i rospi da baciare sono tanti, e spesso comporta tali oneri in termini di tempo, capacità di produzione, logistica e quattrini da investire che diventa un’impresa impossibile. Inoltre, se con il Covid molte rivendite e molti rivenditori in tutto il mondo hanno chiuso l’attività, con le guerre (con la scusa delle) i prezzi di quanto serve alla produzione sono aumentati in maniera esponenziale. Si potrebbe pensare, allora, di provare ad abbassare un tantino la qualità e ottenere un prodotto decoroso, medio. Ma questo è quello che fanno molte grandi aziende e sempre a quei prezzi così bassi che il piccolo produttore mai potrebbe sostenere. Oltretutto, chi ama il proprio lavoro e si ammazza di fatica desidera farlo nel modo migliore possibile per sé e per gli altri, altrimenti il piacere svanisce.
C’è da dire, inoltre, che l’agricoltura e la viticoltura praticate su piccola scala non hanno mai portato un guadagno che permettesse un vero sostentamento, lo scriveva già Columella nel suo Trattato sull’Agricoltura (tra 5 a.C. e 60 d.C. o giù di lì): i suoi calcoli sul ricavo che si poteva trarre dai vigneti e dalla vinificazione sono talmente precisi da lasciare stupefatti, e se lui non possedeva i mezzi che ci sono ora aveva però gli schiavi, e non si trovava davanti la burocrazia italiana ed europea. Molte piccole imprese, soprattutto quelle create da giovani sulla spinta di alcune associazioni di categoria, in primis la Coldiretti, hanno creduto di poter basare la propria economia sui finanziamenti che per anni sono caduti a pioggia; ma è evidente che non funziona, nessuna gestione può vivere di questo, che siano imprese minuscole o nazioni intere. Allora, che fare?
Forse, a voler essere molto ottimisti, si potrebbero cercare nuovi modelli di vendita e di comunicazione. Il piccolo viticoltore che gestisce fisicamente quasi da solo la sua azienda perché non ha altre forme di reddito, e che per questo non può permettersi di pagare il “commerciale” o l’agenzia di web marketing, che quando si avvale di manodopera lo fa con paghe e orari onesti, non può fare anche il resto, non può occuparsi dell’azienda, della cantina, della vigna, della promozione del prodotto in giro per il mondo, della burocrazia, non può cercare di arrivare alle persone che potrebbero essere importanti per il suo lavoro, trovare le strategie vincenti, occuparsi dei clienti ed essere presente sul web. Voler presentare una figura di questo tipo facendola passare come reale, non è un’operazione di marketing, è una balla, e inoltre proporre un quadro simile alla vecchia pubblicità del Mulino bianco è fuorviante e banale: a ben guardare la comunicazione del produttore è fatta solo di parole come passione per la tradizione, amore per la terra e per il territorio, amore per le proprie radici, tradizione familiare, cultura della terra, sostenibilità e rispetto per l’ambiente. Non solo è tutto talmente monotono da sembrare finto anche quando è vero, ma è l’identico linguaggio impiegato proprio dalle grandi aziende. Lo stesso vale per l’informazione: sui giornali di settore e non, va sempre tutto bene nel migliore dei mondi possibili. La vendemmia è scarsa? La qualità però è sempre eccezionale – vale anche per l’olio, non sia mai osare dire che quest’anno di basse rese è delicato come mai prima d’ora (la parola “piatto” meglio non farla rientrare nel vocabolario impiegato). Forse sarebbe più interessante provare a difendere la piccola produzione presentando fatti reali – che nel bene e nel male hanno una loro poesia – cercando di creare nuove forme di comunicazione che abbiano contenuti dialettici, fornendo informazioni corrette e leali anche da un punto di vista formale; ma naturalmente, ed è difficile assai, dovrebbero farlo tutti, o quasi, affinché possa esserci uno scambio vero tra produttore e cliente – tra le persone – al di là di tutto il fasullo che ci circonda; così, forse, più liberi e naturali potremmo esserlo noi, e non il vino. Che possa accadere è praticamente impossibile, essendo quello che stiamo vivendo parte di un processo inevitabile – che non si vuole evitare – ma chissà.
FOTO: Lavori, pescatore, Pellestrina (VE), 2016

