di Francesca Veltri
Venti agosto. Per raggiungere la Romania abbiamo attraversato quattro stati diversi, confini impensati ancora trent’anni fa: abbiamo lasciato l’UE in traghetto per approdare in Albania, poi il Montenegro dalla costa fino alle montagne che ricordano le Alpi, poi la Serbia, poi uno spicchio di Bulgaria con cui rientriamo in UE, ed ecco la Romania.
Un tempo, il famoso viaggio dell’Orient Express originale aveva tra le sue tappe Parigi, Vienna, Bucarest e Instanbul (che all’epoca aveva un altro nome). Bucarest, la Parigi dell’est, era l’anello di congiunzione tra cultura occidentale ed orientale, tra un mondo e l’altro, pronta ad accogliere le esigenze di un turismo d’élite raffinato e curioso. Bucarest è stato il primo luogo all’estero che abbia visitato da sola: prima di Mosca, prima di Praga. Avevo diciotto anni, e il richiamo dell’est già risuonava forte nel mio cuore. Era la metà degli anni Novanta, subito dopo il crollo del regime di Ceausescu, e la capitale romena aveva l’aspetto di uno scampato a un naufragio, che ancora non sa se sarà capace di riprendere a vivere davvero, o dovrà limitarsi a sopravvivere a fatica: miserabile, sporca e spenta, le facciate annerite e increpate, i negozi semivuoti, poca gente per strada. La rivedo oggi, dopo trent’anni, divisa tra cantieri ancora aperti, palazzi coperti per i lavori in corso, e quartieri già riportati alla bellezza e vivacità degli anni Venti. Prima della guerra, prima del fascismo, del comunismo. La Lipscani di adesso è simile al Quartiere latino della Parigi del nord: luci, colori, odori di buon cibo si mescolano alla nebbia profumata dei narghilè sui tavoli all’aperto. Passiamo dalla piazza dove Ceausescu ha visto la folla osannarlo e poi rovesciarlo, dove in centinaia hanno lasciato la vita sulle sue pietre. Unica città di Romania, tra quelle che abbiamo visitato, che di ciò abbia una memoria fisica, impressa nella pietra delle statue dedicate alla rivoluzione di dicembre. Piazza della rivoluzione, si chiama. In un angolo, il muro di un piccolo palazzo dall’architettura elaborata, ocra e rosso, porta ancora i segni dei proiettili: chi ci passa deve sapere da solo che era la sede della Securitate, che le sue pietre tiepide per il sole estivo ancora conservano il terrore distillato lungo decenni. Sfiorandole, lo avverti come il brivido di una vecchia pelle, ma se non lo sapessi potresti passarci davanti e ignorarne i trascorsi. La Securitate, Bucarest non se la vuole ricordare. Ci sediamo a bere in uno dei locali di Lipscani, tra le luci colorate e la musica, e Angelo dice che è come se la città avesse tolto il burka mostrandosi per com’è. Com’era. Io che la ricordo com’è stata, brindo con lui al suo coraggio. Alla resurrezione delle pietre, delle case, della vita giovane che a notte già caduta sciama per le sue strade e si mescola ai turisti stranieri, intrecciando lingue diverse in un comune sogno di Europa, di futuro.
Venticinque agosto. Skopje lascia a bocca aperta i rari turisti occidentali che ci passano; dopo gli scontri sanguinosi tra macedoni e albanesi, ora ha trovato un equilibrio nel suo frammentarsi in un caleidoscopio di comuni, ognuno con una maggioranza diversa, una lingua diversa: quello a maggioranza musulmana dove nel vecchio bazar i chioschi di spezie si mescolano alle nuove bancarelle di plasticherie cinesi, dove i minareti si slanciano nel cielo e si parla albanese; quello a maggioranza rom, che non faremo in tempo a vedere, unico luogo al mondo che abbia come lingua ufficiale il romanì; quello macedone, dove passiamo una serata a guardare centinaia di statue enormi, così pacchiane da far sorridere se non fossero così grandi da spaventare, di filosofi ed eroi del mondo classico, a partire dalla mostruosa figura gigante di Alessandro Magno. Intorno, uno scenario di palazzi sottili come fogli di carta dalle facciate neoclassiche pesanti di stucchi, che si riflettono nell’acqua del fiume sotto al ponte di pietra, insieme alle luci dei casinò accese per tutta la notte. La ricostruzione fittizia di un passato glorioso che non è il proprio, ma è l’unico da ostentare. E lo si ostenta sfacciatamente, pazzamente, quel passato che nel 2014 un governo di impronta nazionalista ha voluto ricreare spendendo milioni in uno dei paesi più poveri dell’area balcanica. Eppure, di mio non riesco a condividere il fastidio, per non dire l’aperta ostilità di Angelo. Sono passati vent’anni da allora, e oggi per le strade della Skopje macedone e albanese o rom non ci sono confini reali: in mezzo alle statue dalla grandezza opprimente e ai palazzi a una dimensione dagli addobbi eccessivi, sciamano insieme, a braccetto, ragazze velate e ragazze in minigonna; i giovani in jeans ballano al ritmo della musica che i loro coetanei rom suonano su tamburi di latta, bambini zingari scalzi chiedono l’elemosina e ricevono gelati dai genitori di bimbi con il vestitino buono dell’uscita serale, quello che si toglie appena tornati a casa. Vengo da un posto dove i più poveri hanno le auto più grandi, prese a rate, e nello sfondo folle e sfacciato che circonda questo formicolare multietnico rivedo lo stesso atteggiamento all’ennesima potenza, non destinato ai turisti ma agli stessi abitanti: una grandezza finta, quasi commovente nella sua fragilità, nella sua falsità. C’era una volta il regno di Bulgaria, c’era la Federazione jugoslava: ora c’è il miraggio lontanissimo di un’Europa irraggiungibile, e allora ci si chiude tra le statue a litigare con la Grecia per non voler aggiungere a quel nome imponente, Macedonia, quell’aggiunta umiliante: del nord. Skopje è l’alter ego di Sarajevo, priva della sua spiritualità, di una storia che la preservi dall’ostentazione senza vergogna di grandezze mai esistite; eppure, tra queste finzioni, i giovani stretti nei suoi confini riescono a vedere i propri coetanei al di là dei capelli velati e degli ombelichi scoperti, della sporcizia che annerisce la pelle degli uni e dei vestiti troppo eleganti degli altri. Per oggi, almeno. Domani chissà.
FOTO: Albano Rossano Sanavio, Cigarettes

