di Simone Basso
Il 17 maggio 1940, alla partenza della ventottesima edizione del Giro d’Italia, pioveva. Davanti al Vigorelli, si mescolavano i pronostici sulla corsa alle notizie della Wehrmacht che, occupati Paesi Bassi e Belgio, stava puntando Parigi. Ignorato dalla moltitudine, nella Legnano di Bartali, il favorito, esordiva un piemontese di Castellania, Fausto Coppi, 20 anni, fortissimamente voluto in squadra dall’avocatto Eberardo Pavesi: Coppi, il 9 giugno, sarebbe entrato all’Arena di Milano con la maglia rosa. Il 10, a Roma, dal balcone di Piazza Venezia, Benito Mussolini annunciò l’entrata in guerra.
Coppi, 65 anni dopo la morte, è vivo. Nacque, il 15 settembre 1919, quarto di cinque figli di una famiglia di contadini della provincia d’Alessandria. Sulla bici, il suo destino, cominciò a lavorarci all’età di 8 anni: come garzone della salumeria Merlani di Novi Ligure. Fa specie pensare all’ultimo viaggio, in Africa, e alla sua fine: quando si spense, quarantenne, era diventato (lui che venne al mondo povero in canna) ricchissimo. Morì in un modo assurdo, di una malaria risvegliata per caso, e sarebbe bastato il chinino per salvarlo: nel suo romanzo, nulla è stato normale, nemmeno l’epilogo. Il 2 gennaio ’60, alle 8 e 45 del mattino, non spirò solo un grande campione ma un simbolo della rinascita italiana, europea, dopo la tragedia del secondo conflitto. In un mondo malato di wikipedismo, Coppi andrebbe tradotto. Le cifre che illustrano la grandezza dell’Airone sono i chilometri accumulati nelle fughe solitarie vincenti: 3039. Un dato, imparagonabile con qualsiasi altro campione. Nel computo dei km d’assolo, ci sono i 192, la performance massima, della Cuneo-Pinerolo al Giro ’49: l’apice assoluto non del ciclismo, forse dello sport novecentesco. Oltre 9 ore di epica che riassumono l’era dei giganti: Fausto andò via sul Colle della Maddalena. Fece una specie di crono, passando il Vars, l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere, nella fanghiglia: lui davanti, irraggiungibile malgrado cinque forature, e Bartali (stoico, magnifico) dietro. A Pinerolo, Gino arrivò a 11’52” dal rivale. Il resto, terzo giunse Alfredo Martini, disperso a 20 minuti. Il Coppi migliore, quello della seconda doppietta: i 72 km in maglia gialla al Tour ’52, nella Bourg d’Oisans-Sestriere, un manifesto. Che costrinse il patron Jacques Goddet, per rendere meno scontata la corsa, a raddoppiare il premio per la piazza d’onore. L’uomo solo al comando, sulle montagne, fu lo stesso che s’impose nei velodromi, dal ’39 al ’55, 82 volte nelle sfide d’inseguimento su pista. 2 titoli mondiali (’47, ’49) e 5 nazionali. Coppi, nel ’49, le due fatiche le affastellò in meno di un mese e mezzo, in una stagione dove svettò alla Sanremo, al Giro, al Lombardia e chiuse terzo al Mondiale su strada di Copenaghen: solo perché il tracciato era insignificante e gli altri, Van Steenbergen e Kubler in primis, si allearono contro di lui. Quel dominio richiamò l’appellativo di Campionissimo: il terzo italiano a scomodarlo, dopo Costante Girardengo e Alfredo Binda.
Coppi inventò il ciclismo moderno. Dunque pure Merckx, la sua proiezione monstre, è figlio di Fausto. La programmazione, l’allenamento, l’alimentazione, la medicina; la squadra di gregari fedeli, la tattica, le mance gerarchiche nel plotone. Accanto, il massaggiatore cieco (che divenne così per la sifilide), l’ombra saggia e cinica di Biagio Cavanna. I coppiani erano tosti, magari non quanto i toscani, di sicuro non lo era lui, un gentiluomo timido. Una volta ruppe un patto, salendo lo Stelvio al Giro ’53 contro Hugo Koblet, un altro aristocratico, un signore, e se ne vergognò. Visse la malasorte del fratello Serse che morì al Giro del Piemonte, nel ’51, e per una settimana pensò di non correre più. Un motore eccezionale, con quel petto da canarino, sproporzionato, e le leve lunghe: in bici, si verificava una simbiosi perfetta. Le ossa di cristallo parevano confermare l’equilibrio psicologico, delicato, di un uomo nato scherzo della natura. Tre lesioni vertebrali, si ruppe la caviglia destra, la clavicola sinistra; un trauma cranico e una lesione al ginocchio sinistro, il femore sinistro. Fece il primato dell’ora, al Vigorelli, tra un allarme bomba e l’altro: era il 7 novembre ’42 e l’Europa un mattatoio a cielo aperto. L’anno seguente, caporale di fanteria, fu spedito a Tunisi sul fronte africano della guerra. Finì prigioniero, nell’aprile ’43, nei campi di concentramento inglesi. Il primo Febbraio 1945, coi sintomi della malaria, tornò (su un piroscafo da Algeri a Napoli) in un paese a pezzi. Ricominciò con l’agonismo grazie a Cristiano Fortunato e all’artigiano romano Edmondo Nulli: nel nord liberato dai nazifascisti, a casa da mamma Angiolina e dalla fidanzata Bruna, ci rientrò in bici. A Lugano, il Mondiale ’53, il compimento della sua odissea sportiva. Sulla Crespera staccò Germain Derycke e s’involò verso l’immortalità. L’edizione speciale de “Lo Sport” vendette una cifra mai più avvicinata da un settimanale sportivo. La Bianchi festeggiò col più grande incremento di fatturato del decennio. Tutti volevano pedalare sulla sua bici o un lembo del suo mito. Nelle foto della premiazione, Coppi iridato e una bella donna cogli occhi azzurri, raggianti. Giulia Occhini, la dama bianca, era già l’amante del Campionissimo. I due divennero materia (e merce) di scandalo l’estate successiva. In un’Italia medievale, bigotta e falsa, furono umiliati in piazza. Gli adulteri, denunciati dal marito di lei, finirono nei guai: a Fausto ritirarono il passaporto, a Giulia toccò l’arresto e il domicilio coatto. Entrambi furono processati. Colpevoli di amarsi, dovettero sposarsi in Messico e Faustino nacque in Argentina.
Il viale del tramonto fu un enigma, pedalava a dispetto della logica che l’avrebbe voluto pascià, nella villa coi camerieri. Fausto, l’uomo che pareva inventato per la bicicletta, dalla bici non voleva scendere: lasciate da parte le palanche accumulate, il bel mondo che l’attendeva, il ciclismo era una passione totalizzante. La libertà.
FOTO: Tiberio Sepe, Madri-figli, 2019-2024

