di Giuseppe Cocco, Albano Rossano Sanavio
Siamo in agosto del 1991. Dopo il Chiapas in Messico e Antigua, il Lago Atitlán in Guatemala, eccoci in partenza per Tikal: la città maya coperta dalla foresta. Come Machu Pichu, in Perù, si tratta di città che erano scomparse sotto la giungla e il cui ritrovamento ha inspirato i vari Indiana Jones e comunque fanno pensare alla caduta degli imperi. A Tikal ci sono un sacco di piramidi. Quando penso a queste città precolombiane scomparse, mi ricordo della prima volta che sono andato a São Paulo con Toni (Negri). Eravamo in una macchina – non mi ricordo più con chi – nel mezzo di strade sopraelevate, palazzi e grattacieli brutti di tutti i tipi e mentre osservava tutto con grande curiosità, Toni chiese: “ma che tipo di rovine questa città lascerà mai?”
Ritorniamo a Tikal. Abbiamo visitato la città nella giungla e stavamo nel paesetto più vicino, una specie di piccola favela non ancora verticalizzata, come tutte quelle che si trovano in America latina, dal Messico al Brasile, passando per Colombia e Venezuela. Il tempo era proprio tropicale, una pioggia sottilissima che si confondeva con l’umidità dell’ambiente. Decidiamo di partire in corriera per Cancun e da lì Playa del Carmen, nello Yucatan. La strada, all’inizio è buona, senza buche. Poi diventa un sentiero di campagna pieno di buche e fango. Sul cammino, due esperienze: un posto di blocco di militari in assetto di guerra che verificano i documenti di tutti quanti. Poi il furgoncino ha un guasto: si è rotto l’asse della ruota. Siamo nel mezzo del bel niente: troppo lontani per tornare, troppo lontani per continuare. Ma i miracoli succedono: appare la corriera che non avevamo preso per risparmiare qualche lira: si ferma e ci raccolgono e così arriviamo a Cancun: una Jesolo. Ce ne scappiamo immediatamente a Playa del Carmen, lungo la cosa del golfo del Messico, con un maggiolone bianco in affitto.
Il giorno dopo partiamo per Tulum, celebre sito Maya sul mare dei Caraibi. Fa molto caldo, sole a picco. Il posto è molto bello, ma invaso da grappoli di turisti. Dopo un giro rapido nel sito archeologico, me ne sto all’entrata, all’ombra di un palo. Vedo davanti a me una coppia. Il signore è vestito un po’ come uno che fa un safari. Quando arriva vicino, vedo che è Sergio Bologna. Che sorpresa! All’epoca, ci si salutava tra ex compagni degli anni ‘70. Presento Sergio e la sua compagna a Rossano e alle nostre compagne. Sergio ci dice che lui è alloggiato sulla costa, in un villaggio di pescatori di aragoste. Decidiamo di raggiungerlo.
La strada è di sabbia, coperta di granchi neri enormi, costeggiata dalle famose palme da cocco che si vedono nelle cartoline. Solo erano tutte decapitate da uno di questi hurricanes che scombussolano il golfo del Messico. I tronchi senza chioma disegnavano un paesaggio lugubre, come quelli prodotti dai bombardamenti russi in Ucraina. Il giorno dopo partiamo in barca con un pescatore. Maschere e snorkeling, magnifico: i famosi pesci di tutti i colori. Rossano s’immerge in apnea e affiorando dice al pescatore che ha visto un pesce gigantesco sul fondo (a una decina di metri). Il pescatore ride. Rossano insiste. Il pescatore si toglie la maglietta e si tuffa a sua volta. Torna in barca e ci dice: “voi rimanete qui (a vari chilometri dalla costa) e io vado a chiamare quegli amici che hanno la fiocina”, indicando le barche che a un chilometro o due pescano aragoste. Io, Sergio Bologna e le ragazze siamo subito saliti in barca per non lasciare dubbi sul fatto che non saremmo rimasti lì da soli.
Ma Rossano è rimasto in acqua, si è fatto dare un arpione di legno ed è rimasto lì impavido, come nettuno, a fare il palo mentre noi e il pescatore siamo andati a chiamare gli altri, che sono rapidamente venuti. Fortunatamente, Rossano non era stata divorato da nessuno squalo. Appena arrivati, quelli delle aragoste si sono immersi e in due secondi han buttato sul fondo della nostra barca la preda: una cernia gigantesca, lunga quasi quanto noi siamo alti. Arrivati al villaggio, facciamo le foto in spiaggia col pesce che Sergio voleva dedicare a suo figlio Morgan. Diciamo ai pescatori che possono spartirlo fra di loro, a noi basterà un piccolo assaggio.
Ecco la cena sulla sabbia: ci mangiamo il prelibato ma piccolissimo boccone di cernia. Mentre stavamo assaporando la brezza, arriva il pescatore di aragoste che si era tuffato per fiocinare la cernia. Parliamo un po’ con lui sulle condizioni di lavoro, molto dure. Ci racconta di un sistema di cooperative legato al partito di governo (il PRI) dominato dai padroni delle barche (e dei motori). Gli chiediamo se la cernia che ha pescato (grazie a Rossano) gli era piaciuta e lui ci risponde che non l’ha più vista: indignazione generale da parte di tutti e Rossano decide di partire alla caccia della cernia per “fare giustizia”, come se fossimo a Piove di Sacco. Prudentemente, Sergio Bologna resta con le ragazze. Abbiamo cominciato a chiedere e non trovavamo dov’era finita la cernia. Dopo un bel po’ siamo finiti davanti alla casa del capo della cooperativa. Rossano dice che il pesce era nostro (suo) e lo voleva per darlo ai “lavoratori”. Il capo della cooperativa diceva che avrebbe investigato e: “mañana, temprano, nos vemos y arreglamos”. A quel punto Rossano esclama in padovano: “chi xe ‘sto temprano che ghe spaco el c… “. E siamo scoppiati tutti a ridere. Anche il messicano ha capito il comico frainteso che ha fatto abbassare la tensione. Così, sono riuscito a convincere Rossano di “mollare l’osso”. Ma mentre stavamo per andarcene, la moglie del tipo ci tira sui piedi un sacco con ghiaccio e il pesce. Presto, la mattina dopo, ce ne siamo andati via a mani pulite e non abbiamo fatto nessuna giustizia per i pescatori. Ma – conoscendo oggi la violenza del Messico e dell’America Latina – ce la siamo cavata bene.
Temprano, come Nessuno, ci ha salvati!
Qui la prima parte del viaggio
FOTO: Tiberio Sepe, Madri-figli, 2019-2024

