di Willer Montefusco
Majakovskij suicidato. 36 anni. Anatolij Lunaciarskij, Commissario del popolo per la Pubblica Istruzione e l’arte: “Ora è morto… Ma l’attivista Majakovskij, il Majakovskij araldo della rivoluzione non è vinto, nessuno è riuscito a colpirlo, ed egli sta davanti a noi in tutta la sua monumentale interezza”.
Appena morto e già monumento!
Bela Kun, il rivoluzionario ungherese: “Non si deve sottomettere ai gretti umori personali gli interessi per una grande causa”. Anche il Soviet dei deputati operai di Mosca si è pronunciato: “Noi condanniamo l’atto assurdo e ingiustificato di Majakovskij. È una morte stupida e vile.” Si toccò anche il comico: “Mamma, sorelle compagni, scusatemi: questo non è il modo (non lo consiglio ad altri), ma io non ho scelta”, così aveva scritto il poeta nella lettera di addio; e gli scrittori del distretto di Orechevo-Zuevo in una risoluzione “assicuravano l’opinione pubblica sovietica che essi non dimenticheranno mai il consiglio del defunto di non seguire il suo esempio”.
Ma negli anni seguenti, l’opera del “cantore dell’ottobre rosso” comincia a essere ridimensionata o addirittura cancellata. E per ironia della storia è Stalin che riabilita il poeta. Lilja Brik nel 1935 si rivolse direttamente a Stalin con una lettera in cui chiedeva di intervenire per sostenere l’interesse tra i giovani per Majakovskij. Stalin trasmise subito la lettera – manco a dirlo – al capo del NKVD, la polizia segreta, con la richiesta di occuparsi della questione e con l’annotazione “Majakovskij è stato e rimane il poeta migliore e più dotato della nostra epoca sovietica”. Si diceva che – a differenza di Lenin, che non lo apprezzava per niente (del poema 150.000.000 sembra lo definisse un “cumulo di sciocchezze”) – Stalin apprezzasse alcuni passi dei poemi Lenin del 1924 e Bene del 1927; soprattutto, ovviamente, quelli in cui veniva citato.
Mah!
L’unico che comprese il gesto fu Pasternak: Il tuo sparo fu simile a un Etna / In un pianoro di codardi e codarde. Che poi scrisse: “Cominciarono a imporre Majakovskij con la forza, come le patate al tempo di Caterina. Questa fu la sua seconda morte. Di essa egli è innocente”.
Lo stesso più o meno accade fuori dell’Unione Sovietica. Esaltato come poeta politico, al servizio della rivoluzione, da parte delle organizzazioni e dei partiti di sinistra; oppure, all’opposto, si rivaluta il versante lirico contro quello politico, ma senza coglierne il nesso e la tensione. In realtà, basta leggere le poesie per capire anche le ragioni del suicidio. Certamente influirono vicende, come si dice, strettamente personali, ma raramente è data la possibilità di leggere la biografia di un poeta attraverso la sua produzione, come nel caso di Majakovskij: l’intera vita quotidiana attraverso motivi personali (Io stesso). Sia la lirica d’amore, sia i poemi politici sono generi essenziali e vitali in tutto quello che Majakovskij ha scritto e la sua unità e indivisibilità stanno proprio nell’alternarsi dei due generi e nella loro tensione.
Tutto nella sua poesia, – rivoluzione, amore, e tutto il resto – tutti i temi convergono su, anzi contro uno solo: la vita quotidiana, il nemico che ha sempre ossessionato il poeta: Costringetela / a cantare / questa vita che chiacchiera. /… Si è stesa / una melma / sulla palude dell’esistenza / … All’ordine del giorno ponete la questione della vita quotidiana. (All’ordine del giorno, 1926)
Qui la vita non è ovviamente una essenza metafisica, ma appunto la vita quotidiana, la forma che la vita assume nel cosiddetto “socialismo”, la vita che avrebbe dovuto essere anch’essa sconvolta dalla rivoluzione, che si adatta invece al socialismo, costituendo una miscela soffocante. Il nemico è proprio questo miscuglio di produttività, di disciplina e di vecchie forme di vita che è la cosiddetta “società socialista”. A essa bisogna opporre il comunismo, ma non aspettare il comunismo che verrà dopo il socialismo, al contrario:
Molto è il lavoro, / e occorre fare in tempo. / Per prima cosa / bisogna rifare la vita, / una volta rifatta, / si potrà esaltarla /… Per l’allegria / è poco attrezzato / il nostro pianeta. / Bisogna / strappare/ la gioia / ai giorni venturi. (A Sergej Esenin, 1926)
Il mandato sociale del poeta è affrettare il tempo. Il suo Io è una sorta di ariete che si scaglia contro un futuro proibito, è la volontà di incarnare il futuro.
Il futuro / non arriva da sé, / se non ci diamo da fare / … il futuro / non è soltanto / nei campi, / nel sudore delle fabbriche. / È nella tua casa, anche, / a tavolino, / nei rapporti con gli altri, / nella famiglia, nel costume (Tirate fuori il futuro!, 1925)
Questa, non è semplice “tensione utopica”, non è proiezione nel futuro; è piuttosto proiezione dal futuro, nel senso che la rivoluzione, tra le altre cose, è anche accelerazione, verso una nuova dimensione del tempo, è il movimento verso un tempo aperto, libero, tutto da riempire, contro la nuova forma di normalizzazione.
Però, mano a mano, lo scontro frontale diventa una estenuante guerra di posizione, e comincia a pesare il senso della sconfitta. Troppo teso alla riappropriazione del tempo, a presentificare il futuro, l’esito finale di questa lotta contro la vita quotidiana è racchiuso negli ultimi versi. Il colpo di pistola poteva sorprendere solo chi non leggeva o non sapeva leggere i suoi versi.
Il mare va a ritroso/ Il mare va a dormire/ Come suol dirsi l’incidente è chiuso / la barca dell’amore s’è spezzata contro la vita quotidiana./ Guarda che silenzio nel mondo, / la notte ha imposto al cielo un tributo di stelle, / in ore come queste ti alzi e parli / ai secoli alla storia all’universo…
Nella rivoluzione, nell’amore, nella poesia, erano in gioco, letteralmente, la vita o la morte.
Ma poi il poeta viene resuscitato da qualcosa che non poteva prevedere e che comunque sarebbe stato in accordo con tutta la sua vita e la sua opera: il movimento del ‘77. Anche Majakovskij voleva tutto. E subito.
FOTO: Albano Rossano Sanavi, Alexanderplatz, Berlino, Marzo 2021

