di Mimmo Sersante
Trattandosi di una finzione letteraria, non sorprende che il giovane Castorp, protagonista de La montagna incantata, venga “così inaspettatamente sequestrato dal destino”. Ma che dire dei tedeschi, ammaliati nel giro di pochi anni dalla filosofia dell’hitlerismo? Anch’essi sequestrati dal destino? Parrebbe di sì, considerando l’esito delle elezioni politiche del marzo 1933. Dietro quel 43,9% di voti al NSDAP si celano ben 16 milioni e mezzo di uomini e donne, di cui la metà non aveva in precedenza operato sul mercato politico: nuovi elettori appartenenti agli strati medio-bassi della struttura sociale, prodotti dai processi di ristrutturazione economica e sociale propri della modernità capitalistica.
Per Hannah Arendt, si trattava di “plebe”, ma in realtà si configurava come un nuovo proletariato, formatosi all’interno delle strutture taylorizzate e razionalizzate delle moderne imprese. Un proletariato dequalificato, sostanzialmente estraneo alle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra, indifferente quando non contrapposto alla “cultura” e ai “valori” del movimento operaio. Basti osservare la composizione sociale degli iscritti al Partito nazista nel 1933: accanto al 15,7% di operai non qualificati, il 9,2% di quelli qualificati, il 25,7% di artigiani, il 10,5% di impiegati medi e inferiori, l’8,5% di funzionari medi e inferiori, l’8,2% di contadini, l’11,5% di commercianti, l’1,0% di imprenditori, il 4,2% di alti funzionari e impiegati, il 5,2% di accademici e studenti.
Bisogna intendersi: del nazismo si è parlato in molti modi. Storici, filosofi della politica, economisti, studiosi di politica sociale, psicanalisti, drammaturghi, poeti e filologi hanno offerto interpretazioni differenti, ciascuno con il proprio linguaggio, che però non fatichiamo a comprendere. Evidentemente non è così con il linguaggio filosofico che si vuole autenticamente tale. Essere e tempo (1927) di Heidegger è un esempio emblematico: un glossario inedito, un’occupazione della lingua filosofica tedesca degli anni Venti che precede di poco l’occupazione della lingua ordinaria da parte del NSDAP e la sua conversione all’ideologia hitleriana. Emmanuel Lévinas, in Alcune riflessioni sulla filosofia dell’Hitlerismo (Quodlibet), intende decostruire questa trasformazione, soccorso dalla nuova lingua filosofica e dalle sue nozioni cariche di un fascino neppure troppo discreto.
Nel 1934, anno della levata di scudi di Lévinas, Essere e tempo poteva apparire in Germania come un libro datato. Troppe cose erano cambiate. Anche il discorso filosofico, come quello ordinario, è, scrive Heidegger, “esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione” del proprio tempo. Essere e tempo era stato concepito negli anni centrali del ciclo di razionalizzazione dell’industria tedesca, in un periodo in cui la disintellettualizzazione dell’operaio era ormai compiuta e il capitale mirava a conquistare la sua “nuova anima”.
Non si può dimenticare lo scompaginamento delle classi medie e l’espansione di un proletariato intellettuale alla ricerca disperata di uno sbocco lavorativo. L’analitica esistenziale di Essere e tempo parte proprio dalla comprensione dell’ineluttabilità di questa frammentazione sociale. La riproposizione del problema del senso dell’essere e la sua soluzione costituiscono il fulcro dell’opera. La soluzione offerta per la comprensione dell’esistenza – che è essenzialmente inautentica – appare perfettamente adeguata alla nuova strutturazione della società, di cui il nazismo rappresenterà solo la forma più esasperata.
Per ottenere una prospettiva storica alternativa rispetto a una concezione meramente evenemenziale della storia, si potrebbe combinare la lettura dei Diari 1933-1945 di Victor Klemperer con le pagine di Essere e tempo dedicate al “Si” impersonale e anonimo, a quel “tutti e nessuno” in cui l’esistenza si disperde nella quotidianità e nell’inautenticità. Ma anche senza Klemperer, il concetto di “fatticità”, centrale per Lévinas, permette di cogliere la radice profonda dell’hitlerismo.
Hitler possedeva una filosofia rudimentale e spaventosamente pericolosa? La sua fraseologia era miserabile? “Ben più che un contagio o una follia, l’hitlerismo è un risveglio di sentimenti elementari”, scrive Lévinas. Ma di chi? Dell’Esser-ci, nel linguaggio di Essere e tempo milioni di lavoratori industriali e agricoli semiqualificati o dequalificati, un nuovo ceto medio tecnico-industriale, emergente dalla burocratizzazione delle imprese e dalla razionalizzazione produttiva, fortemente tecnicizzato e ansioso di distinguersi dal proletariato. La “massa arida e uniforme” di cui Musil parlava con sarcasmo ne L’uomo senza qualità.
La “fatticità della vita” è la dimensione concreta e contingente di questo Esser-ci. Per Heidegger, è un individuo “affidato alla propria situazione”. Per Lévinas, tradotto dal linguaggio hitleriano, significa “inchiodato, incatenato, già-da-sempre-legato all’esperienza del nostro corpo, del corpo-che-noi-siamo e di cui lo spirito occidentale non ha mai voluto accontentarsi”. Messa così, la questione del rapporto dell’uomo nazista con la sua corporeità cambia radicalmente segno.
Ripulire l’ignobile fraseologia sessuofobica e razzista di Mein Kampf diventa compito della fenomenologia heideggeriana. Non che la razza e la “società a base sanguinea” scompaiano, ma esse figurano come elementi decorativi di “un nuovo ideale di pensiero e di verità”. Liberalismo e marxismo vengono aborriti, così come la tradizionale nozione europea di uomo, libertà e democrazia. E, soprattutto, il potere di dubitare.
Lévinas omette volutamente l’ultima parte di Essere e tempo, dedicata alla storia dell’Esser-ci. Eppure, avrebbe potuto trovarvi molte conferme della sua interpretazione dell’hitlerismo, a partire da parole come comunità, popolo, destino-comune, decisione, temporalità originaria e autentica.
FOTO: Cesare Rizzetto, Asilo Nido, Porcia, 1989

