La rivoluzione dei cafoni di Di Vittorio

La rivoluzione dei cafoni di Di Vittorio

Il triennio 1902-1904 fu un periodo di conflitti di classe asperrimi, soprattutto nelle campagne del meridione. Non avrebbe potuto essere altrimenti, considerate le condizioni di lavoro e di vita dei salariati agricoli nel Mezzogiorno d’Italia all’inizio del Novecento. La risposta dello Stato era spaventosa e sfociava abitualmente in eccidi proletari

di Chicco Galmozzi

E i Caradonna abbassarono i fucili.
«I guardiani passarono al galoppo gridando: “È inutile alzare la testa! Zappate! Badate che siamo pronti a tutto! Guai a chi smette di lavorare!” Il caporale Luca, capo dei guardiani, urlava più forte degli altri. Ma i giovani cominciarono a gridare a loro volta: “Basta! È finito l’orario di lavoro! Smettiamo di lavorare!”
I braccianti zappavano in lunghe file di venticinque lavoratori ognuna; nella vigna dove si trovavano i giovani con Di Vittorio erano più di quattrocento.
“Chi grida? Si faccia avanti!”, urlò il caporale Luca. Ma si era portato con la sua cavalla presso la fila dove si trovava appunto Di Vittorio con i suoi compagni. Improvvisamente si sentì afferrare per le braccia. Fu atterrato e disarmato per primo.
L’azione fu compiuta secondo il piano; in pochi minuti tutte le guardie furono disarmate e dalla folla dei braccianti si levò una festosa acclamazione all’indirizzo di Di Vittorio e degli altri giovani del circolo. Così il lavoro fu interrotto all’ora giusta e i mille braccianti festosi si avviarono verso la città, preceduti dai giovani che portavano a tracolla i fucili, le cartuccere e gli uncini dei guardiani. Per la prima volta i braccianti avevano visto le guardie gettate a terra, disarmate, umiliate, vinte. I giovani cantavano. All’entrata nella città le donne uscite dalle case improvvisarono loro una grande festa».

Nelle giornate del 23-24-25 Novembre 1912, a Modena, si tiene il Congresso Costitutivo dell’Unione Sindacale Italiana, al termine del quale viene proclamato il Comitato Centrale, composto da 13 membri, nel quale, a fianco di Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Alberto Meschi, Tullio Masotti, viene eletto Giuseppe Di Vittorio, leader della Camera del Lavoro di Cerignola e delle lotte sindacali e politiche pugliesi. Giuseppe Di Vittorio ha vent’anni ma è già un dirigente sindacale noto a livello nazionale e poteva già vantare un’esperienza quinquennale iniziata quando, a 17 anni, è il fondatore del Circolo Giovanile Socialista, di ispirazione sindacalista rivoluzionaria ed è già membro del consiglio della Lega dei braccianti di Cerignola.

Giuseppe Di Vittorio, figlio di braccianti agricoli, nasce a Cerignola l’11 agosto del 1892. Nel 1904, nel maggio, partecipa ad una manifestazione di lavoratori agricoli, durante la quale interviene la polizia. Quattro lavoratori vengono colpiti a morte. Fra questi un suo giovane amico quattordicenne, Antonio Morra. Quando diventa segretario del circolo giovanile socialista di Cerignola, il circolo prenderà proprio il nome di “XIV maggio 1904”, per ricordare l’eccidio consumato in quell’anno.

Il triennio 1902-1904 fu un periodo di conflitti di classe asperrimi, soprattutto nelle campagne del meridione. Non avrebbe potuto essere altrimenti, considerate le condizioni di lavoro e di vita dei salariati agricoli nel Mezzogiorno d’Italia all’inizio del Novecento.

In queste condizioni le ribellioni assumevano spesso la forma del tumulto anche se non era così dappertutto e la differenza la faceva il livello di stabilità dell’organizzazione delle Leghe. In Puglia, per esempio le lotte tendevano a perdere i connotati che le rendevano simili ad esplosioni improvvise, cui seguivano lunghi periodi di stasi, per assumere i caratteri dello scontro di classe organizzato, con obiettivi sia materiali che politici ben precisi.

A fronte di ciò la risposta repressiva dello Stato era spaventosa e sfociava abitualmente in eccidi proletari. Nel triennio 1902-1904 in occasione di conflitti nelle campagne, prevalentemente al Sud, si contarono 34 morti e 192 feriti.

Proprio per tentare di superare la frammentarietà e l’isolamento politico delle singole lotte e d’altra parte per opporsi alla politica repressiva del governo Giolitti, iniziò a imporsi nel dibattito politico e sindacale la parola d’ordine dello sciopero generale.

A riprova della forza politica e organizzativa delle Leghe, nel biennio 1907/1908 la Puglia è al primo posto per numero di scioperanti. In quegli anni nella Capitanata al centro delle lotte c’era l’orario di lavoro che durava dall’alba al tramonto. Con una prima lotta vittoriosa i braccianti ottennero di cessare il lavoro mezz’ora prima del tramonto onde potersi ritirare dai campi quando ancora non fosse del tutto buio.

Alla fine del 1909 il Circolo di Cerignola contava già 400 iscritti, in prevalenza giovani braccianti. Le prime iniziative del Circolo, una campagna contro l’alcoolismo e un a battaglia per l’istituzione in Cerignola di una scuola serale con libri gratuiti per i braccianti, rivelano fin da subito l’impronta e la concezione politica di Di Vittorio: l’affrancamento e l’emancipazione contadina non è solo questione economica e la loro subordinazione è fatta nello stesso tempo di sfruttamento e subalternità culturale.

Fu grazie a questa lotta, che finì pubblicata su un quotidiano del Nord, che il Circolo di Cerignola entrò in contatto con organizzazioni operaie e bracciantili dell’Emilia e del Piemonte con le quali fare scambi di materiali di discussione politica e sindacale.

La seconda campagna lanciata da Di Vittorio fu quella contro una manifestazione, solo in apparenza marginale, contro una delle sopravvivenze feudali che gravavano sui lavoratori della campagna: “I cafoni erano tenuti a vestirsi in modo diverso dai commercianti, dagli artigiani e dai signori. Questi indossavano il cappotto e loro il tabarro. I braccianti portavano la scoppoletta, agli altri era riservato il cappello”..

Per Di Vittorio era chiaro che non esistevano ragioni economiche – occorreva più stoffa per un tabarro che per un cappotto – ma si trattava simbolicamente di un segno di distinzione che confermava la subalternità dei cafoni ai signori. Anche attraverso queste rivoluzioni nei costumi il bracciantato prendeva coscienza di sé e queste trasformazioni mettevano in discussione il vecchio mondo semifeudale.

L’idea sottesa era che la rivoluzione fosse un grande processo corale, una profonda rivoluzione civile, prima ancora che sociale, come lenta e costante conquista della “cittadinanza” da parte del proletariato agricolo pugliese.

FOTO: Cesare Rizzetto, Asilo Nido, Porcia, 1989