di Leonardo Lippolis
Nell’agosto del 1948 i quotidiani genovesi davano notizia del fatto che il regista René Clement e la sua troupe comprendente Jean Gabin e Isa Miranda erano sbarcati in città per girare le riprese del film Le mura di Malapaga, una malinconica storia d’amore ambientata nel centro storico che sarebbe uscita l’anno seguente.
Tre chilometri di percorso pedonale lungo un canale artificiale che costeggiasse il porto sotto le mura di Malapaga e che collegasse il centro storico di Genova alla zona fieristica della Foce erano il fiore all’occhiello del progetto che Renzo Piano regalò al Comune di Genova nel 2014, il Blueprint. Quella passeggiata doveva restituire agli abitanti della città il fronte mare cancellato dall’industrializzazione portuale di inizio Novecento e, nelle intenzioni di Piano, doveva completare l’altro suo grande progetto genovese, quell’area del Porto Antico inaugurata in occasione dell’Expo 92 che aveva restituito l’accesso al mare alla città vecchia.
In questi mesi i cantieri del Blueprint si stanno completando, ma il progetto ha cambiato nome: ora si chiama Waterfront di Levante, “una rivoluzione verde tra il cielo e il mare” come lo presenta il sito ufficiale, e dei tre chilometri di passeggiata sotto le mura di Malapaga, il suo cuore pubblico, non c’è più traccia: cancellata dagli interessi e dai divieti imposti dai cantieri navali e da Confindustria. Ad oggi il Waterfront di Levante è diventato un’area commerciale e una enclave residenziale di lusso, comprendente il rifacimento del palazzetto dello sport con annesso centro commerciale, un parco urbano, un albergo a cinque stelle con 130 stanze e un complesso abitativo di 240 appartamenti distribuiti in due edifici gemelli, alcuni dei quali riservati come b&b per turisti e gli altri che hanno un prezzo di mercato che oscilla tra i 4.000 e i 12.000 euro al metro quadro, con le unità più pregiate che superano i 3 milioni di euro.
Al di là della forte polemica politica che si è creata in città sul significato di questo progetto come una forma della crescente privatizzazione degli spazi urbani, quello che colpisce, ora che è possibile passeggiare nel piccolo labirinto di canali artificiali e spazi chiusi da cancelli che circondano i due condomini di lusso, è la percezione di un tentativo di ricreare i canali di una Venezia postmoderna tra muraglioni di cemento grigio. La prima sensazione che si prova è di essere stati catapultati a Thamesmead, il quartiere brutalista costruito alla fine degli anni Sessanta nella zona sud-est di Londra e utilizzato da Stanley Kubrick per girare alcune delle scene più importanti di Arancia meccanica. Nel 1970 il Consiglio Municipale di Londra produsse un documentario che presentava Thamesmead come il prototipo della “nuova città per il XXI secolo”, esaltando l’attenzione posta dai progettisti a “tutti i bisogni vitali di una comunità moderna e sana”. “Thamesmead, dove sessantamila persone vivranno in condizioni ambientali ineguagliate da qualsiasi cosa esisteva prima” concludeva trionfalmente il documentario. Esattamente nello stesso periodo Kubrick vi girò le riprese per il film, avendo già compreso l’essenza di quell’idea di città, dal momento che nel giro di pochi anni Thamesmead divenne rapidamente un quartiere insicuro, con un alto tasso di attività antisociali, vandalismo e piccola criminalità, un simbolo della distanza tra i progetti di architetti e urbanisti e la vita reale delle persone. Uno spazio urbano che egli aveva già capito sarebbe diventato un ricettacolo di alienazione e tristezza adatto a rappresentare la distopia sociale di un futuro prossimo che da allora è il nostro presente.
Certo Thamesmead fu pensato come un quartiere residenziale per fasce popolari, al massimo per la piccola borghesia, mentre col Waterfront genovese siamo di fronte a una enclave per miliardari, per chi ha già uno yacht e vi compra un appartamento come seconda casa per quando ha il tempo per farsi un giro in barca. Nel prossimo futuro probabilmente non ci vedremo passeggiare i novelli drughi della devianza sociale e le sue strade cieche di cemento non verranno sfregiate da graffiti né diventeranno teatro di atti di vandalismo, anche perché saranno protette da guardie private pronte a interrogare e segnalare chiunque vi si aggiri quando i negozi sono chiusi. Per immaginare la vita nel Waterfront di Genova tra qualche anno dobbiamo rivolgerci a un altro genio britannico, James G. Ballard. Leggendo i suoi romanzi Il condominio e Supercannes e la descrizione della psicopatologia della noia innescata da questi non-luoghi per ricchi ci si fa un’idea abbastanza precisa di quale sia l’idea di felicità dell’umanità che abiterà il Waterfront. Un novello Ballard che trascorresse i prossimi anni da infiltrato, voyeur, vagabondo statico tra i canali, gli yacht, i negozi, le telecamere di sorveglianza e i ballatoi di queste cattedrali dell’esclusività in attesa dei probabili episodi di cronaca nera che funesteranno la sua comunità benestante potrebbe avere materiale per un nuovo bestseller della narrativa distopica.
“Mentre camminavamo lungo la baia del cemento abitato”, recita la voce off di Alex all’inizio della scena topica di Arancia meccanica che rappresenta lo sventato golpe dei drughi nella luce gelida del mattino riflessa dal grigio dei palazzi di Thamesmead. Ecco, se capitate a Genova e volete farvi un giro sotto i condomini e i canali di cemento del Waterfront (come per altro consigliano le nuove guide turistiche della città), il consiglio è di farlo ascoltando le note de La gazza ladra di Rossini, le stesse che ispirano Alex in quella passeggiata brutalista. Quanto a quella sotto le mura di Malapaga non resta che continuare a guardare il film di Clement e sorridere pensando alla lettera mandata da un lettore al quotidiano genovese «Il Lavoro» nel 1948, nella quale commentando la notizia dell’arrivo della troupe del film si lamentava su come sarebbe stata presentata Genova al mondo, con “le topaie abitate dai senzatetto e i vicoli affollati di gente losca e maleducata”.
FOTO: Cesare Rizzetto, divisione psichiatria, ospedale di Sacile, 1989

