di Domenico Bilotti
Il 24 novembre il leader populista rumeno Calin Georgescu ha vinto a sorpresa il primo turno, lasciandosi alle spalle i candidati favoriti: il socialdemocratico Ciolacu e la centrista trasversale Elena Lasconi. Georgescu ha un passato di dirigente della comunità internazionale, si è occupato di rapporti interstatali e di sostenibilità (i temi oggi rigettati dalle destre cui si è abbeverato per vincere, altro che outsider). E non sono mondi da peccati i due competitors: i socialdemocratici rumeni hanno da tempo un’agenda sociale che ricalca fedelmente posizioni di chiusura sulle libertà civili. Ergo, non hanno perso perché sono diventati “liberal” (il mantra vomitato addosso a ogni sinistra riformista sconfitta). La Lasconi guida un partito che ha fatto della bandiera legalista e della capacità di allearsi con chiunque un marchio di fabbrica. Sarebbe Georgescu il nuovo, i socialisti i rinnegati libertini e l’antipolitica davvero scevra dal palazzo?
In Georgia le elezioni del 26 ottobre si sono svolte in un clima avvelenato e il blitz degli anti-europei somiglia alla più parte dei georgiani, compresi loro sostenitori, più a un putsch che a un sorpasso. Il coercitivo ritorno a un modello indiviso del potere contro le aspettative di miglioramento delle condizioni di vita, secondo un binario pluralista. In Moldavia, all’opposto, faticosamente resiste un risicato blocco sociale che vuole agganciare il Paese alle democrazie, che non vuole tuttavia il ricorso a mezzi violenti contro gli autonomisti della Transnistria, che pure sono compattamente schierati con Putin e costituiscono il primo vero avamposto (cronologicamente, oltre che geograficamente) della politica neoimperiale sul suolo euro-politico. Entra, scompiglia e non sempre fa i coperchi per le sue pentole. Lubrifica rivendicazioni etniche e territoriali, ma lo fa con armi e propaganda, più che gli strumenti giuridici del confederalismo e della libertà di scelta.
Nell’Europa orientale, a conferma della sua natura politico-demografica realmente laboratoriale per i destini del continente, è nata una delle più enfatizzate categorie mediatiche sull’arretramento sociale della sinistra. Nei territori dell’ex Germania est ha acquisito consenso, sino agli exploit di Sara Wagenknecht, la convinzione che la sinistra, sia quella istituzionale sia quella di alternativa, avesse smarrito il proprio radicamento nei luoghi del lavoro e del conflitto “scivolando” sul fronte delle libertà individuali e votandosi esclusivamente alla loro difesa. Si sarebbe complessivamente depotenziata da sé, fuoriuscendo dai canali della sua presenza popolare, dedicandosi a una inutile battaglia a beneficio di ideali borghesi e consumistici. Se guardiamo al clima di astio e spesso violenza fisica contro le comunità migratorie, non meno che contro le minoranze tutte (anche in materia di orientamento sessuale), ci si può rendere conto di come questa contrapposizione tra una presunta sinistra laicista e un’altra, concreta e tradizionalista, sia quanto di più effimero si sia prodotto nell’opinione pubblica mainstream. L’argomento che si propone sempre contro il mainstream, paradossalmente, (la contrarietà a una sinistra neoliberale e, si direbbe, integrata ai meccanismi decisionali e finanziari del capitalismo), è invece la quintessenza di tutto il luogo comune. Quello per il quale diritti politici, diritti civili e diritti sociali sono tre mondi a parte, distanti, contrapposti, artificialmente scomponibili. Spezzoni della sinistra antieuropea ottengono percentuali irrisorie per governare, sufficienti a garantire la rendita elettorale della rappresentanza, mentre in nome di narrazioni sovrapponibili le destre, scavalcandosi mano a mano sempre di più verso gli estremi, ottengono percentuali vicine a 1/3 dell’elettorato frantumando sempre di più il totem della separazione tra revisionismo e presa del potere. AfD si candida a divenire partito di maggioranza relativa, soppiantando il cristianesimo conservatore e i liberali e prendendo voti copiosi sia dall’astensionismo sia dalla critica ai partiti tradizionali e alla loro perdita di rappresentatività. L’ipocrisia di ritenere ogni manifestazione del consenso strappata con la menzogna, con l’odio sempre più sbandierato verso le componenti più fragili e tra loro in disperato conflitto, pienamente democratica, totalmente democratica, effettivamente popolare, non produce alcuna novità. Tutt’altro, scivola nel peggio del già sentito: la sindrome del dire “a questo punto”.
Tra una coalizione con vaghe intonazioni ecologiche e uno straccio di politica velatamente redistributiva, “a questo punto” tanto meglio gli altri: il trenta per cento a chi rimpiange il nazismo; la maggioranza a chi chiude le frontiere; il boom per chi vuole fare a pezzi l’Europa e lo Stato sociale. In nulla e per nulla, invece, una riflessione su come tali rivendicazioni opportunisticamente agiscano, in modo becero, attraverso un disagio sostanziale che non trova controproposte nella comunicazione politica attuale.
Il mondo a Est di Vienna e a Ovest di Mosca è in fermento. Chi ha sperimentato l’eccessiva rapidità e la sbrigativa superficialità nel sostituire a colpi di bacchetta magica decenni di socialismo sovietico con una burocrazia globalista è accattivato dalla propaganda palingenetica. Tornare alla Russia, tornare alla sovranità. Tornare ovunque per non andare da nessuna parte. Ed è del pari straordinario, anzi: ancora più arrischiato e forse autentico, il movimento delle opinioni pubbliche che ricercano l’integrazione europea, la lotta alla repressione, l’ampliamento delle libertà politiche. Solo così l’UE potrà crearsi una reputazione diversa dal dirigismo filo-mercatorio e una postura differente dal regolatore slegato dalle istanze locali, che la hanno ostruita e inibita: allargandosi oggi e raccogliendo chi chiama dal dentro e dal basso le riforme potrà sopravvivere senza scivolare nella negazione di sé.
FOTO Aldo Bressi, Riace (RC), anni ’80

